Dal nostro viaggio in Georgia: un racconto su Tbilisi, su Artur, sul vino e sui fili invisibili che legano la Matematica alla nostra Storia.
La faccia di Artur è come la Georgia, guardandolo ci puoi navigare dentro. Al centro il naso prominente sale come il Kazbegi tra vie sterrate e vallate scoscese, gli occhi sono incavati e grandi, sempre un pò umidi, il Mar Nero e il Mar Caspio. Le labbra sottili e il sorriso lungo e malizioso mi ricordano la strada tra Kutaisi e Gori, un’odissea di anse innevate e villaggi fatiscenti. Sulle guance ha disegnato rughe profonde e aride come i vertiginosi canali di Tbilisi dove le case si lanciano dallo strapiombo e poi Abanotubani, come tanti foruncoli che ribollono in superficie, infine la fronte, ampia e striata che mi ricorda il deserto di Davit Gareja.
I vecchi georgiani sono tutti così, ogni faccia una mappa, non come i giovani che sono tutti lisci e piatti come i deserti del New Mexico. Sono da consultazione i vecchi georgiani: tante cartine tornasole limpidissime.
Ci puoi leggere di terremoti, alluvioni, guerre civili, dominazioni illegittime, collassi finanziari e chissà cos’altro. Se ci parli ti accorgi che stanno bene in fondo, con la rassegnazione di chi ha poco da vivere e poco da guadagnare, hanno incollato tutto il loro passato su quelle maschere un po’ sofferte e un po’ folli e dentro gli è rimasta solo una leggerezza sorniona e lo scrollarsi di dosso sempre tutto.
Artur però non è vecchio. Lui proprio è nato così, con questa mappa stampata sulla faccia che gli si legge come un libro aperto. Magari sarà evoluta nel tempo e le creste delle montagne saranno diventate più impervie e i mari più profondi, ma le arterie principali del suo viso, lo so per certo, sono sempre state lì a raccontare il suo paese.
Attraversammo la Kote Afkhazi che era già notte. All’imbrunire, il quartiere vecchio di Tbilisi sembrava la collina di Spoon River, le ombre lunghe entravano senza permesso nei chiostri deserti, all’interno file di panni colorati appesi sventolavano come bandiere tibetane. Quindi macerie ovunque e una bellezza inusuale che prendeva vigore dalla decadenza, un fascino fatto di crepature e disfacimento. Le finestre avevano un filo di trucco che stava colando via, le facciate sfinite e brillanti sembravano il viso di Anna Magnani in Mamma Roma. In alto, sulla vetta del Sololaki, la statua di Kartlis Deda, la madre dei georgiani, splendeva fiera e possente, in una mano una coppa di vino in favore degli amici e nell’altra una spada sguainata contro i nemici: una dichiarazione di intenti.
Kartlis Deda era stata la nostra stella polare nel cammino verso la Kote Afkhazi. Era sempre presente, incorniciata dalle creste degli edifici o riflessa dai vetri delle finestre mentre ci infilavamo nei vicoli bui tra le travi e le impalcature che sorreggevano la città vecchia di Tbilisi.
Se gli uomini georgiani sono della mappe deambulanti, allora le donne sono dei fari nella notte. Stavo pensando anche a Santa Nino, l’apostolo rosa nata ai tempi di Diocleziano che, agli albori del cristianesimo, trecento anni prima della nascita di Maometto, aveva convertito un intero paese alla sua religione, prima di Roma, prima di quasi chiunque altro. Un’ eroina cristiana che farebbe impallidire Giovanna D’Arco, se non fossimo in Georgia, la terra dimenticata da qualunque dio compreso il figliol prodigo Josif Stalin.
Svoltammo l’angolo per entrare in Erekle II Street e qui, con somma sorpresa, ci ritrovammo catapultati in un’altra realtà. Era come se una Disneyland contenuta e invernale fosse atterrata poco più avanti e Erekle II Street ne fosse l’anticamera. Non so se avete presente quel momento in cui ci si allontana dai bagliori e dal chiasso di una luna park con ancora il cuore in gola o quella sensazione di pace che si ha nel passeggiare di notte alla luce dei lampioni tra le fronde e il silenzio alle porte di una grande città: quella era Erekle II Street. Oltre i tetti pompavano le luci e i rumori del ponte della pace e del palazzo presidenziale, qui un anfratto di una Parigi spenta mormorava delicati sussurri. Alle nostre spalle il buio, la notte.
Mi ricordò l’effetto che mi aveva fatto Bursa, qualche anno prima. Tra il buio, l’austerità, la tragedia incombente, l’umanità si raduna in spazi angusti e nascosti per celebrare la fiammella tenue della vita. A Bursa, di notte gli uomini si radunavano fuori dai bar per trincare çay nei tradizionali bicchierini a forma di tulipano seduti su panchetti di legno attorno ad un tavolino malmesso. Erano illuminati da lanterne o candele, io gli filavo accanto nell’oscurità senza farmi vedere, spettatore di un rito ancestrale. Sembravo Corrado de “la casa in collina” di Cesare Pavese, salivo e scendevo le alture di Bursa in cerca di un riparo che non fosse casa, riflettendo su me stesso, sul mio passato e sul mio presente.
Lanterne, candele, fiaccole, lumi a petrolio, i falò di Pavese, ad ognuno la sua luce su questo mondo. A Erekle II Street c’erano invece delle file di lucine tiepide e graziose. Era come se fosse natale ma non ci fosse nessuno a festeggiarlo.
Proseguimmo nella muta solitudine di un Mercoledì di Dicembre: non c’era nessuno. La via era costellata di morbidi dehors dentro il quale flirtavano sparute coppie ben vestite, i terrazzini chiusi al secondo piano ricamavano di pizzo gli edifici. Cercavamo qualcosa di meno lezioso e più sostanzioso. Tornammo indietro. Affissa a fianco dell’ingresso del primo edificio sulla destra, una palizzata pacchiana con la scritta “Wine Shop” incisa a caratteri cubitali attirò la nostra attenzione. Cominciammo a scendere la prima rampetta di scale sulla sinistra che conduceva ad un seminterrato di cui si vedeva poco o nulla dal lato stradale. Le scritte fuori, disegnate col gesso su lavagna o stampate su fogli neri, recitavano cose come “Il cliente ha sempre torto!” o “Il vino è come l’opera, puoi godertelo anche se non lo capisci”. Ce ne erano anche tante altre in georgiano e in russo, sgraziate e semi-cancellate, smile retroilluminati, font discutibili.
Entrammo alla chetichella, come se dovessimo tendere un agguato, tu davanti e io dietro. Queste sono le incombenze che di solito lascio a te. Io guido nella giungla, nei deserti rocciosi, tra le creste delle montagne innevate, in mezzo al caos dei mercati, tra i grattacieli di una metropoli, ma dentro i bar no. Quello è il mio turno di riposo. Non è tanto perchè non mi piacciono i bar quanto perchè non ne sono capace. Non sono capace di entrare in un bar per primo, mi sento come Woody Allen in un cocktail bar hipster, trasandato e imbarazzato della mia inadeguatezza, tutti che mi fissano e io non che non riesco ad esprimermi con coerenza, vorrei un tavolo, un bicchiere, un menù, non lo so, dovrei rifletterci. Tu invece tramuti l’imbarazzo in delizia. Il commesso quando ti vede è come se dovesse scartare un regalo, non so cosa gli piglia.
Con Artur il gioco funzionò solo a metà: mimetizzato tra le volte a crociera incombenti della cantina, avvinazzato e con la scucchia pronunciata che gli donava quel ghigno beffardo, non era un commesso quanto il funambolico mescitore di Vinoground, il suonatore di vini. Eccetto un grasso signore pelato dallo sguardo truce incollato dietro un bancone ai bordi della stanza, il locale era vuoto e noi non sapevamo cosa fare.
Il punto era che il compito primario di Artur non era quello di vendere vino ma di berlo in compagnia. Era come un circo: Artur serviva dei vini su richiesta e il cassiere dallo sguardo truce raccoglieva soldi se lo spettacolo ti era piaciuto, se quei vini erano buoni e ne avresti comprato la bottiglia. “Hey, Artur, suona una canzone per me”. Lui si avvicinava ad un tavolo con una enorme collezione di bottiglie di vino aperte che assomigliava ad un organo a canne e cominciava a servire. Ogni bottiglia una nota: serviva da bere come un bluesman malandato, dinoccolato ma preciso e quindi ti raccontava cose. Inizialmente sul vino, la sua materia, poi diluiva quel contenuto, pronunciato in maniera secca e sintetica, con una tale quantità di stronzate, illazioni e mezze frasi che non avevi il tempo di stargli dietro. Rimanevi in piedi come un allocco a rigirare il vino nel bicchiere e pensare alla prima frase che aveva detto, l’unica sensata.
Fu lui a suonare la carica al nostro momento di stallo. Ci versò due calici di vino scintillante di rosso bofonchiando degli zoppicanti “taste” e “drink”. Poi si allontanò di un passo, per darci lo spazio fisico per poterli gustare. Quando avvicinai le labbra al calice sentì come un brivido profondo percorrermi la schiena. Non tanto perchè il vino fosse buono o cattivo, non ho la presunzione di poter dare giudizi a riguardo, quanto perché fu come lanciarsi e rotolarsi in un campo di terra umidiccia e autunnale.
Una immagine di liberazione a cui poi ne seguirono altre: da quando ero bambino non provavo quella sensazione di fragilità e lussuria che si ha quando si stringe tra i denti un chicco d’uva senza romperlo.
La buccia è vellutata e liscia e quando la si incide si sente un crocchiolio perfetto, una penetrazione lenta e goduriosa. Ecco, tutte queste immagini si affollarono nella mia mente quando il vino incontrò le mie labbra. E non penso fosse completamente merito del vino, benchè il Saperavi ci mettesse del suo, c’era anche tutto il resto, la Georgia che avevamo visto fino a quel momento. A posteriori pensai che bere del vino in una regione così diversa dalla nostra è come bere del vino per la prima volta ed è quindi come tornare un pò bambini. Le papille gustative sono iper-recettive, poco disilluse e l’immaginazione è fervida. Per esempio in quel vino sentì anche il profumo di cacca. Lo stallatico delle distese enormi di campi fertili oppure quella lasciata a decantare delle stalle. Ha un odore meraviglioso se ci liberiamo da quella ossessione che abbiamo per la puzza, un odore vitale. Ci sento dentro come una sensazione benefica, rilassante, mi dà sicurezza la cacca, come il verme nell’insalata o il grasso lucido nel prosciutto crudo.
Artur però non stava cogliendo i miei giri mentali e, vedendoci scossi o sovrappensiero, pensò bene di cambiare rotta ed offrirci altri due calici. Voleva toglierci dalla testa quel polveroso e stantìo sapore di Georgia per farci sentire a casa. Una volta allungatici i calici disse, con quella sua espressione a metà tra lo sghignazzo e l’orgoglio, “Like Italy, taste”. E di nuovo fu una esperienza affascinante e balorda: dopo averci accompagnato al buio nella profonda intimità georgiana, ora ci regalava qualcosa di più consono, “un buon vino” come si direbbe da noi. Come quando te ne vai in giro per mezzo mondo in cerca di chissà cosa e poi ad un certo punto ti fermi ed esclami: bello questo panorama, mi ricorda il mio paese!
Saliva un tepore misurato ma elegante da quel calice e il gusto era tondo, ampio. “Italy” ripeteva Artur con la scucchia da fattucchiera intanto che quatto quatto si serviva un goccio anche lui, tanto per non rimanere indietro. Aveva in viso la soddisfazione del prestigiatore a cui riesce il trucco: Artur e le sue ampolle magiche, ognuna con l’essenza di un paese del mondo. “Like France, like Spain, everything you want”. In breve prese il via come una molla, a presentarci la sua schiera di amiche bottiglie, a narrarci storie di vendemmie e, su tutto, a bere vino. Ne assaggiammo uno che pareva succo di albicocca e rimanemmo di sasso quando scoprimmo che erano state delle uve a produrlo.
Quindi il Khvanchkara, il vino di Stalin, che sapeva di spezie e carbone dolce e aveva un profondità torbida e stranita. Il carbone mi faceva venire in mente grosse locomotive a vapore che procedevano lente sui binari nei lunghi inverni sovietici. Immaginavo le locomotive sbuffare quel profumo speziato come una pentola a pressione riempita di Kirsch.
Nel frattempo Artur parlava, sempre più ebbro, fiero e svagato allo stesso tempo, la sclera intrisa di rosso e la pupilla lucida: i cinquecentoventiquattro vitigni autoctoni della Georgia, i kvevri come memoria storica del passato, la gloria eterna di un’arte che si perde nella notte dei tempi, il lungo medioevo della vinificazione trascorso a foraggiare i russi, la rinascita dei tempi recenti, un risveglio sonnolento e quasi inconsapevole. Tutto ciò era singolare: con un bicchiere in mano Artur era un dotto cattedratico, il suo viso si apriva e dalla mappa georgiana esplodeva un libro animato, come quelli che da piccoli ci sorprendevano e ci raccontavano storie. Ma bastava che poggiasse il bicchiere sul tavolo e sembrava un inguaribile ubriacone, incedeva con passo incerto ed equilibrio instabile, le guance smunte sembravano quelle di un tossico.
“Di dove sei Artur? Come conosci tutte queste cose sui vini del mondo?” Era il tuo classico intervento a gamba tesa: ti disinteressi completamente dell’uomo e vai sul pallone, in maniera pulitissima. Di solito lo fai quando il discorso prende delle pieghe troppo ampie e poco interessanti. Effettivamente Artur dopo l’exploit iniziale aveva cominciato a deviare il discorso in maniera stramba e in breve era approdato a lidi sconclusionati e perversi. Andasti a prendere il controllo della situazione mentre stavamo guardando un video su facebook con un tipo ciccione che faceva esplodere una bottiglia con delle mentos, coca-cola e una poltiglia marrone che sembrava merda: Artur ne sembrava entusiasta. Ma la tua domanda andava a pungolare il suo orgoglio georgiano anche se non aveva un bicchiere in mano, una donna perspicace sa sempre come tastare la fierezza di un uomo.
“Sono di Tbilisi ma ho vissuto dodici anni in Austria. Ho guadagnato un bel pò di soldi e me ne sono tornato qua, perchè l’Austria non mi piace tanto”. Con il viso girato di sbieco in direzione del bancone, avevo notato che l’energumeno che vi stava dietro aveva inarcato un sopracciglio. Allora era vivo!
“E che facevi in Austria? Come mai non ti è piaciuta?” le tue domande solleticavano così tanto la sua attenzione che riprese il bicchiere in mano e mostrò di nuovo il suo profilo migliore.
“Ho fatto tante cose, prevalentemente nel mondo del vino, tanti lavori diversi” si fermò un secondo e per un attimo allungò il suo sorriso beffardo e strinse gli occhi già provati dal vino, poi riprese “L’ Austria è bella, si vive bene, è che, sai, per uno come me non è facile. Il rapporto con gli altri è diverso, non ho mai provato veramente quello che sento qua in Georgia, la sensazione di essere a casa”.
Lo potevo vedere come se fosse davanti ai miei occhi Artur in Austria. Quella mappa muscolosa e scura che camminava tra i casamenti bianchi e lisci di Vienna, in mezzo a visi levigati, mappe di un altro pianeta. Artur, senza bicchiere in un pomeriggio grigio ma con mille risorse.
“E poi… voi siete italiani, io li vedo i vostri occhi sono come i miei, parlano. Gli occhi degli austriaci invece non dicono nulla, dominano. Sono come quelli dei tedeschi, sono diversi. C’è chi massacra e chi viene massacrato, chi domina e chi viene dominato e chi domina vince. E noi Georgiani siamo sempre stati dalla parte sbagliata della storia. Siamo sempre stati massacrati, dominati e seviziati da tutti, dai turchi soprattutto e dai persiani, dai russi. Ma nessuno vi ha mai raccontato nulla perchè siamo dalla parte sbagliata della storia.” Erano parole dure ma Artur le pronunciava con una tale leggerezza che sembravano lame che si scongelavano al sole. Duravano il tempo di pronunciarle e poi decadevano. Ebbero però effetto sul grasso signore dietro al bancone che cominciò, seppur in maniera impercettibile, ad annuire ed Artur, simulando imbarazzo, disse “Spero non abbiate parenti austriaci o tedeschi altrimenti sono fottuto!” e scoppiammo tutti in una grassa risata liberatoria.
“Non abbiamo parenti o amici austriaci o tedeschi, puoi stare tranquillo” dicesti, rispondendo a tono sull’onda lunga della battuta. Poi continuasti, sentendo il bisogno di condurre il discorso su dei binari meno sdrucciolevoli: “E’ vero, non conosciamo nulla di queste zone, è un peccato, sono molto affascinanti. Più giriamo e più sentiamo questa… vicinanza con gli altri, non so come dire. In Iran siamo stati scambiati più volte per persiani e anche qui, c’è qualcosa che mi ricorda sempre l’Italia. Sarà il vino o il paesaggio, ma credo che abbiamo qualcosa in comune.” Ti interrompesti un momento per concederti un secondo di riflessione, salvo poi esclamare: “E poi mio papà ha proprio la faccia da georgiano adesso che ci penso!” e di nuovo concludemmo tutti con una risata, seppur più contenuta.
“Proviamo a vedere: come ti chiami? Qual è il tuo nome e il tuo cognome?”
Quando gli dicesti il cognome ci fu un tale tumulto di sorpresa che il signore dietro al bancone, paralizzato da ore, mosse addirittura il collo leggermente all’indietro e assottigliò le labbra in un flebile sorriso. Artur invece era incontenibile: “Speri! O mio Dio”. Girò attorno al tavolo delle bottiglie e si chinò per aprire l’anta di un piccola cassettiera posta sotto ad un altro tavolo. Ne cavò fuori una bottiglia semivuota e tre bicchierini che riempì senza pensare, quindi brindammo tutti assieme. Il calumet della pace di Artur era una specie di grappa, solo un pò più dolce, la facemmo fuori in un sorso, tu in due. Si vedeva che Artur era ansioso di dirci qualcosa, il sorriso gli penzolava dalle fossette come un’amaca scoprendo i denti radi e storti e le guance colme di rughe.
“Ispir, conoscete? È una città della Turchia che si trova a circa 200 chilometri di distanza dal confine georgiano. Una volta era nostra, come tutta la regione. Una volta la Georgia era grande poi sono arrivati i turchi e ci hanno massacrato.” Artur prese di nuovo a discorrere come un fiume in piena. Raccontava fatti reali: il regno di Georgia stretto nella morsa dei Mongoli, dei turchi e dei persiani. Tamerlano, il condottiero più feroce di tutti i tempi che faceva costruire torri alte cinque metri fatte di teste mozzate per intimorire i nemici, l’ultimo imperatore dell’Asia Centrale la cui ombra arrivò a lambire le montagne della Cina occidentale. David Il Costruttore, il re cristiano che si ribellò ai musulmani selgiuchidi e, alla testa di uno dei più forti eserciti di tutti i tempi, li sbaragliò a Didgori nonostante fossero in inferiorità numerica di almeno 10 volte rispetto ai loro nemici e fondò il più grande regno di Georgia che la storia abbia mai visto.
Eravamo sopraffatti da una Storia mai raccontata, senza S maiuscola e senza s minuscola, un’epica che giaceva in soffitta rischiarata solamente dalle luci tenui di Tbilisi e che ora veniva fuori in tutto il suo splendore. Tutto ciò era realtà o favola? Nello stesso periodo della battaglia di Hastings, l’impero selgiuchide si estendeva per oltre venti volte la superficie della Gran Bretagna: possibile che una Storia così imponente sia rimasta invisibile ai miei occhi?
Artur raccontava con il consueto distacco come se le parole non uscissero dalle sue labbra. A noi sembrava di aver fatto un primo passo oltre confine, in un territorio alieno e sconveniente. Sentivo ora una frattura tra me e Artur e provavo un inspiegabile senso di colpa.
“Ispir, vi stavo dicendo. Sapete come si dice Ispir in georgiano? Speri. S.P.E.R.I.. Es, Pi, I, A, Ai.” Artur fece lo spelling più volte su nostra richiesta ma il risultato non cambiò. Speri era il nome georgiano di quella località che fu a lungo il confine occidentale del regno di Georgia. Ristammo, divertiti e increduli. Ora Artur mi sembrava di nuovo più vicino, i suoi occhi sembravano più simili ai miei. Era una continua fisarmonica di sensazioni in cui mi pareva a tratti più vicino e a tratti più lontano, empatico e distaccato, amico e straniero.
Il signore dietro al bancone approfittò di quel momento di impasse per intervenire per la prima volta da quando eravamo entrati. Si sistemò sulla sedia come per trovare il giusto appoggio alle parole e poi disse col viso arcigno e voce monocorde: “E’ tutto vero, Speri era Georgiana, i turchi ci hanno decimato. Fino a qualche secolo fa era abitata solo da cristiani, ora non c’è n’è più traccia, solo musulmani. Nessuno parla mai di queste cose ma sono la realtà.”
Tergiversammo ancora un pò ma sapevamo che la serata era giunta al termine. La chiosa del signore ci fece scivolare verso altre tematiche, più veniali. Artur era oramai ubriaco fradicio e ondeggiava a destra e sinistra, non ci fece pagar nulla: ospiti, diffondete il verbo del vino georgiano. Anche io e te eravamo alquanto avvinazzati, uscimmo e risalimmo le scalette sull’onda dell’entusiasmo della bella serata. In preda ad una sbornia felice, provammo una strada alternativa verso casa imbucandoci in Ierusalimi Street e svoltando a sinistra per entrare in Betlemi Street. L’ alcool colorava di giorno le vie di Tbilisi al nostro passaggio.
Io stavo pensando alle mappe. Mi piacciono un sacco, non so come mai, forse perchè sono i miei pied-à-terre su questo mondo che non ho mai capito fino in fondo. La prima a cui pensai era la faccia di Artur che era come la Georgia. Aldilà solo terre a me ignote, la Turchia orientale, la Russia caucasica, com’erano quelle zone? Potevo immaginarmi solo un pertugio che passava dalla montagnosa Armenia e sfociava, molto lentamente, nei deserti dell’Iran centrale. L’Italia non era poi così lontana: oltre la Bulgaria, ultimo bastione d’Europa, rimaneva solo da attraversare il Mar Nero. A pensarci bene mi stupiva il fatto che, nonostante la deriva dei continenti avesse pressoché lasciato intatte le terre emerse negli ultimi 10 milioni di anni, siamo abituati a pensare al mondo come qualcosa in continua evoluzione. Sono i confini probabilmente a darci questa percezione, il nostro pianeta si cambia d’abito spesso a causa di guerre e rivoluzioni e i vestiti vecchi si buttano, conta solo quello che è alla moda. Ad esempio chi si ricorda più di quando lo stivale italiano aveva una fantasia arlecchino oppure di quando era adornato da un laccio penzolante a forma di penisola d’Istria? Eppure erano stati tanti i cambiamenti, centinaia, forse migliaia linee di frontiera, di conquista e di arretramento. Tutti quei confini si sovrapposero nella mia testa, quelli che conoscevo, quelli che non conoscevo e quelli che potevo immaginare. C’erano i confini frastagliati e turbolenti conquistati col sangue e col sudore, metro per metro, poi quelli tondi e ampi guadagnati con la diplomazia, quelli tracciati con la riga da altri senza passione e infine quelli imposti dalla natura, l’acqua e le montagne.
Poi però ripensai alla faccia di Artur e mi venne in mente che quella non aveva confini: oltre la barbetta ispida mal rasata la scucchia terminava dolcemente, i capelli radi e ingrigiti erano inoffensivi. Qualche milione di anni fa o oggi la faccia di Artur sarebbe stata sempre la stessa, nuda e accogliente.
“Ti ho mai raccontato dell’ assioma di Dedekind e di tutta quella storia sui paradossi di Zenone e la continuità e l’infinitesimo? Era uno dei miei cavalli di battaglia all’Università.” Domandai così, di punto in bianco, un guizzo estemporaneo fomentato dall’alcool.
“Mmm, non credo. Se è una roba matematica potresti avermela raccontata ma stai sicuro che me la sono dimenticata”.
“Okey, allora se vuoi te ne parlo”. Rispondesti con uno squillante “va bene!” ma in realtà non te ne fregava nulla. Credo che l’idea fosse di lasciarmi parlare a ruota libera, poi nel caso l’argomento avesse avuto un minimo aggancio con la realtà avresti provato a seguirmi, altrimenti mi avresti lasciato a briglia sciolta, come un signore che sguinzaglia il cane al parco e si gode la sua sigaretta. La tua era una tattica ma andava bene così: avevo bisogno di parlare a te ma anche a me stesso.
“In pratica l’assioma di Dedekind dice che l’insieme dei numeri Reali è continuo.”
“Ma per numeri Reali intendi tipo: uno, due, tre, quattro…”
“No no! Quelli sono i numeri Naturali. I numeri Reali sono quelli tipo uno-virgola-qualcosa (e quel qualcosa può durare all’infinito). Tutti i numeri che puoi immaginare e anche di più.” Con quell’ultima frase ti avevo praticamente perso, immaginazione e matematica non vanno molto d’accordo nel sentire comune. E’ come se i matematici dovessero reclamare ogni volta il diritto a sognare, tutti la vedono come un edificio imperturbabile e misconosciuto e pensano che non cambierà mai. Ma non è così. “Insomma tutti questi numeri qualcosa-virgola-qualcosa (e anche di più) pensa di piazzarli su una retta tutti in fila. Dedekind dice che ci sarà sempre un elemento separatore che taglia la retta e divide due insiemi di punti anche se quel numero non possiamo immaginarlo o contarlo. Pensa per esempio a √2 o π o e. Sono dei numeri qualcosa-virgola-infinitoqualcosa, non possiamo esprimerli completamente nè con una frazione nè con un numero qualcosa-virgola-qualcosa e dobbiamo quindi inventarci un simbolo. Si chiamano numeri Irrazionali per distinguerli dai numeri Razionali che sono quelli esprimibili.”
Passarono attimi di silenzio lungo una Tbilisi sempre più buia e malconcia man mano che svaniva l’effetto dell’alcool. A sprazzi, sulla destra, nei pertugi lasciati dalle case si intravedeva in lontananza la parte nord-est della città, le luci smaniose del palazzo presidenziale e del ponte della pace. Non avevo capito se stavi in silenzio perchè, persa tra i pensieri, ti eri dimenticata di me oppure se stavi riflettendo sul mio discorso.
“Ma come è possibile che un numero non si possa scrivere con un numero? Non ho capito… E poi: qual è il punto di tutto ciò? E come ti venuta in mente questa roba ora a Tbilisi e nel pieno della notte?”
“Come fai a scrivere un numero se contiene un numero infinito dietro la virgola? Devi per forza crearti un simbolo. Comunque… tutto questo mi è venuto in mente perchè stavo riflettendo su una assurdità di tutto questo ragionamento di Dedekind: lui risolve un problema di continuità con un separatore, cioè con il suo opposto. Si trova di fronte a dei buchi “irrazionali” e, per riempirli, capovolge il discorso. E’ come dire: non è un buco che separa me e te ma è un confine che unisce me e te. E’ una intuizione bellissima però è fondata su un contrasto.”
“Beh non è una cosa negativa. A me i contrasti piacciono, sono quelli che tengono in piedi il mondo.”
Continuammo a camminare in silenzio. La matematica non ti è mai piaciuta. E’ un peccato perchè è molto interessante, non è così difficile come si pensi e spiega un sacco di cose di ogni genere. Vero, ci sono tanti termini che bisognerebbe imparare a conoscere: Continuità, Completezza, Reale, Naturale, Razionale, Irrazionale. Tutti termini che in campo matematico hanno un certo significato e nella vita di tutti i giorni ne hanno un altro. Ma siamo veramente sicuri che sia così?