Un racconto sulla Sicilia, sull’isola di Mozia, su Rosa Balistreri, Renzino Barbera e… una guida tutta speciale.
La prima volta che senti la voce di Rosa Balistreri ti piglia un infarto. Ascoltate Buttana di to mà: sembra un muezzin alla corte di Ade, irrompe in maniera raggelante, sguaiata, torbidissima, i primi 5 secondi vorresti tapparti le orecchie o prenderla a calci. No, questo è troppo per te, un insulto alla tua ragione, alla tua vocazione di bravo ragazzo. Che donna è questa che canta come uno scaricatore di porto?
Poi dai 10 secondi in poi cominci ad apprezzare il profilo netto, pulito. Il piglio deciso che prima ti mandava in bestia ora ti solletica la fantasia, la voce di Rosa domina incontrastata e questo le dà, per contrasto, una sensualità inusitata. Pian piano comincia a tastare tutte le sfumature della rabbia, dell’orgoglio, della dignità, della vergogna. Aggiunge gemiti di piacere e dolore, annaspa nella stessa melma struggente che ha creato.
Ascolti impassibile e inerme, non ci può essere interazione perché Rosa Balistreri si ascolta non si canta.
L’incontro con Virginia Aloisi, pasionària come nella miglior tradizione siciliana, sacra custode dell’isola di Mozia nonchè nostra guida è stato più o meno equivalente. Mozia dall’alto sembra la testa calva di un cinquantenne sovrappeso, nessun appeal per quella piatta distesa pezzata. Marettimo, Levanzo e Favignana in lontananza mostrano gli addominali, le navi cariche di turisti procedono verso di loro senza sosta. Mozia piange, in silenzio, di nascosto e le sue lacrime si riversano sulle acque vergini dello stagnone. L’ isola grande la protegge in un abbraccio materno.
Di quando siamo arrivati noi, al parcheggio auto, mi ricordo la sabbia che si alzava e il caldo infernale. Ad Agosto in Sicilia brucia ogni cosa, tutto muore ma è una morte comunque bellissima. Eravamo in ritardo, come sempre, e incontrammo Virginia alla biglietteria dei battelli. Il primo sguardo fu come aver avviato un nastro di Rosa Balistreri. Con gli occhi Virginia diceva proprio “puttana di tua madre”, era evidente. In realtà i suoi occhi inizialmente avevano solo detto “puttana”, poi, una volta scoperto che non avevamo contanti, dissero anche “di tua madre”. I tuoi occhi, comprensivi come sempre, dicevano invece “siamo proprio degli stupidi”. I miei occhi invece volevano già andarsene, non volevo pressioni o ammonizioni di sorta, ho la vocazione del bravo ragazzo io. Fui costretto a filare via verso il primo bancomat con Virginia che ancora sbuffava, guaiva, nicchiava come un lupo ferito. Non avrei lasciato nessuno in mano a quella pazza tranne te, speravo in una folgorazione empatica e in una successiva conversione di Virginia a gentil nobildonna. Ma non fu così: al mio ritorno, il tuo sopracciglio destro leggermente alto mi comunicava un primo livello di allerta e avevo capito che Virginia aveva vinto la prima battaglia.
Sul battello eravamo solo noi tre. Il barcaiolo, docile e sornione, partì immediatamente. Virginia era indomabile, si allungava da un fianco all’altro del battello, gracchiando e balbettando. Quando finalmente si rabbonì, si avvicinò a noi e cominciò a presentarci l’area. Fu un racconto rocambolesco, un misto tra un libretto turistico affettato, un flusso di coscienza rabbioso e un numero di cabaret condensati in un collage picassiano. Ci spiegava che nessuno entrava a Mozia perché veniva privilegiato l’inutile giro in barca dello stagnone, esaltava lo splendore delle acque dello stagnone e della sua fauna, rabbrividiva al malcostume di chi faceva il bagno in zona protetta, si dannava l’anima tutto il giorno per recuperare clienti contro tutto e tutti.
Mentre ascoltavo, guardai di sotto la superficie dello stagnone: un pesce sgusciò via da sotto la barca, le posidonie salutavano leggere, oscillando. Le acque erano splendide e i racconti di Virginia amplificavano la sensazione di sorvolare qualcosa di unico.
Arrivammo a Mozia in un silenzio irreale, l’isola ci accolse in un tripudio arido di aloe e fichi d’india. Virginia era già balzata a terra e in un batter d’occhio era di fronte all’ingresso all’isola. Stava aspettando le sue prede: gli inconsapevoli e stolti figuri che erano stati gabbati con il giro dello stagnone. La maliziosa barchetta approdava per pochi secondi al pontile di Mozia lasciando l’opportunità di poter girare l’isola. Per Virginia era l’opportunità di accaparrarsi clienti. E’ da qui che riparte il nastro di Rosa Balistreri. Virginia, indomita, inferocita si lanciò all’attacco, provò colpi di persuasione morbida ma lo fece con armi pungenti, una voce tagliente, gli occhi sbarrati. I colpi andarono a vuoto, Virginia perse le staffe, lanciava anatemi, gridava al complotto. La barca se ne andò, i figuri erano girati di schiena a testa bassa, Virginia alzava il pugno, non mollava fino all’ultimo. Arrivò una seconda barca e Virginia ripartì di nuovo all’attacco per nulla scalfita dalla sconfitta di prima, anzi rinvigorita se possibile. Qualcuno finalmente scese dalla barca ma era un’illusione: tutti proseguirono dritti e in fila, di Virginia guardarono solo le mani, gesticolare, divincolarsi, l’impressione è che stessero pensando ad una vecchia ubriacona, mascotte dell’isola. Lei rispondeva con un immenso, gigantesco “buttana di to mà” a tutti quanti loro, al barcarolo, alla mafia dei giri allo stagnone, alla Sicilia, al mondo intero. Io e te eravamo in un angolo, annichiliti. Arrivò una terza barca. Tu mossa da commozione, la raggiunsi ed andasti ad aiutarla, io rimasi seduto, ammirato dalla sua caparbietà. Chiunque dopo la prima barca avrebbe rinunciato con amarezza offeso nell’onore e nella sua vocazione di bravo ragazzo.
Ma il nastro di Rosa Balistreri andava avanti. Lei era in prima linea di fanteria con il moschetto alto, tu dietro, la cavalleria delicata che concedeva l’onore delle armi. Non sapevo bene se ridere per la comicità delle scena o piangere per il tempo perduto seduto su un trespolo, ammorbato dallo scirocco, sulla soglia di un’isola piatta nascosta da selve di aloe e fichi d’india. Ma quando vidi un uomo alto, ben rasato e lustrato, innalzare il suo Ipad in segno di spregio tuonando “Non ci servi! Noi abbiamo questo!”, ebbi un sussulto di orgoglio interiore: “ehi amico, l’isola di Mozia non è mica un articolo di Amazon” pensai. Lo tenni per me, come una vittoria nascosta. Pensai anche che il piglio deciso di Virginia era fuori luogo ma affascinante e ci aveva elevato ad uno status di elezione particolare, quelli che avrebbero avuto l’onore di guardare dallo spioncino l’anima di Mozia. Lo so che tu stavi pensando la stessa cosa mentre combattevi al fronte con lei. Il nastro di Rosa Balistreri aveva effettuato il primo giro di boa, oltre i 10 secondi. La battaglia lasciò sul campo battibecchi, insulti e minacce di vendetta ma fu raccolta una parziale vittoria, racimolando ben 5 persone. Nel frattempo Virginia, ebbra di sfide e dialoghi al fulmicotone, troneggiava sulla staccionata del pontile assumendo le sembianze di una predicatrice biblica: era convinta che sarebbero tornati tutti quanti da lei, implorando pietà e delucidazioni sull’isola. I compagni che avevate raccolto erano eterogenei: un’anonima coppia di cinquantenni, una giovane coppia dal viso pulito ma un pò altezzoso, un milanese in calzoni corti e camicia. Il milanese era senz’altro il più buffo: diceva di essere appena atterrato a Trapani ma poteva essere stato tranquillamente paracadutato da una stazione orbitante. Calpestava la Sicilia come un sentiero di lava, il sorriso saggio e sornione, la camicia rammendata, la discrezione e l’attenzione ai dettagli tradivano le sue origini. In breve finalmente entrammo nell’ isola.
Ahi Mozia! Quanti onori e quanti disonori hai ricevuto? Quanta storia è scorsa via sopra la tua zucca pelata? Quanti popoli e quante genti hai conosciuto?
I fenici, Cartagine, l’assedio di Dionisio di Siracusa. La tua sabbia scotta, gronda di passato illustre. E’ come quando entri in chiesa e il primo passo che fai, felpato e umile testimonia la soggezione verso una storia più grande di noi, con Dio o senza dio, credente o non credente.
Virginia raccontò la sua Mozia facendo vibrare tutte le corde emozionali. Domata la furia, la sua narrazione diventò fluida ed entusiasmante, sussurrava le gesta di eroi di altri tempi, declamava versi, disegnava nell’aria basamenti, colonne e torrioni di ogni epoca. Si commosse alla vista del giovane di Mozia per l’ennesima volta. Mi commossi anche io alla vista di un’opera la cui grazia travalicava ogni secolo, strappata alla terra, proiettata al futuro come poche altre.
Virginia aveva il dono di amplificare l’energia di quell’isola, trasformando le aride steppe di Agosto in un teatro vivente. Usciti dal museo, ci guidò alla scoperta dell’isola: sembrava un cane segugio in ansia da prestazione, fiutava, tracciava percorsi contorti, ci invitava alla scoperta ma faticavamo a starle dietro. Ci indicava una Mozia a prima vista invisibile. E lo era in effetti. Mi accorsi che i pochi presenti, i temerari che stavano perlustrando l’isola senza una guida, brancolavano nel buio. Era come se il caldo li avesse accecati, Mozia li stava inghiottendo nelle sue sabbie mobili, un terriccio aspro e sterile, cespugli riarsi al sole. Il principe dei temerari stava usando l’ipad per ripararsi dal sole (ecco a cosa gli serviva), stremato, appoggiato ad una palma.
Voi non capite la fatica di attraversare Mozia in Agosto, di mettere semplicemente un piede davanti l’altro. C’è tutto il peso della Sicilia, senti Montale tuonare in cielo, pure con un velo di sarcasmo. Ma Virginia, lei volava. Ci prendeva per mano o più spesso a scappellotti e ci indicava la via. Capimmo che il segreto di Mozia era tutto nei dettagli e nell’ immaginazione. La casa dei mosaici per esempio, dove non c’era che un cumulo di basamenti e pietre e quel mosaico di ciottoli marini che da lontano sembrava una incrostazione di calcare. Poi ti avvicinavi e quelle forme disegnate prendevano vita. Virginia ti guidava nella ricostruzione, completavi il mosaico, innalzavi colonne e pareti, l’edificio saliva, dall’alto riuscivi a vedere la cinta muraria, le navi e il mare, Mozia roccaforte dei Fenici. Oppure sterpi secchi e cespugli bruciati: Virginia si intrufolava, calpestava, riemergeva proteggendo con grazia un bocciolo variopinto. Poi cominciava a raccontare di colori e di odori di primavere festose e di Gennaio, mese silente in cui la natura brilla come non mai. La percezione si amplificava e potevi vedere una, dieci, cento Mozia a seconda delle stagioni e del tempo, creando strati diversi a seconda della fantasia di ognuno.
Il nastro di Rosa Balistreri si avviava al termine. Arriva un punto in cui Rosa esce dal baratro, dice E Non sono morto no/Sono ancora vivo/Olio ce n’è in questa lampada e ancora accende. E’ una voce imperiosa, tremenda ma allo stesso tempo scintillante. Si sente che cova dentro qualcosa di grosso ma è ancora latente. Poi esplode in uno tsunami devastante di risentimento e rabbia e quando pronuncia quella parola “Impamuna” (infami) la voce è completamente trasformata. E’ un’altra Rosa come se fosse stata sequestrata dal demonio, incontrollabile, non ci puoi fare nulla.
Virginia, con la coda dell’occhio, vide una famiglia sbucare da un boschetto di ulivi che portava al litorale. Gli chiese se avevano il biglietto d’ingresso. Lo chiese con tono spropositato, senza indugiare nelle cautele del caso. Erano Francesi, non capivano. Virginia lo ripete in francese, con buon accento. I Francesi continuavano a non capire ma per Virginia era già abbastanza: in costume da bagno, con l’intento di bivaccare e mangiare sopra un tappeto d’oro come l’isola di Mozia. Scoppiò come una mina, era tornata in trincea, lanciava missili terra-aria contro mulini a vento. Pure il milanese sornione scosse la testa. Capivo cosa stesse pensando. Non era colpa di Virginia, dei francesi o di chissà chi.
Era tutto un grande punto interrogativo per cui gli “impamuna” sembrano quasi invisibili e immanenti a questa terra e per colpire l’invisibile spesso finisci per colpire te stesso o quelli che dovrebbero essere i tuoi amici. Allora te ne vai, come Rosa, ma poi torni. Tanto vale fare come Virginia e restare a combattere.
La prima volta che ho visto Renzino Barbera ho pensato che fosse un brav’uomo come ce ne sono tanti. Un valantomu. Poi ascoltandolo si è rivelato un comico dalla verve particolare la cui risata scaturisce non, come usuale, da momenti topici o apici ma da un flusso ininterrotto di dialoghi e situazioni irresistibili. E’ una comicità che non è meccanica, ma che scorre via, in questo è molto simile alla vita. Poi c’erano le parole: sempre cariche, sempre azzeccate ma mai enfatizzate. E’ come se dovessi leggere tra le righe, oltre al cabaret, oltre alla maschere e ai pupi. I poeti non hanno bisogno di tante spiegazioni, le parole sono lì, sul piatto.
Dopo la tempesta, la quiete: Virginia ci aveva condotto al riparo dall’afa, all’interno di un boschetto di ulivi. Ci sedemmo, finalmente spirava una leggera brezza rinfrescante. La voce di Virginia si fece calma e leggera, quasi sussurrava. Era come essere attorno ad un focolare, il vento copriva i silenzi. Virginia estrasse dalla tasca un piccolo oggetto. Lo teneva stretto tra le mani, come a volerlo nascondere. Per un attimo brillò alla luce del sole: era fatto di metallo. Virginia tenne il respiro qualche secondo, come per dettare il momento d’inizio, poi si portò l’oggetto alla bocca e iniziò a suonare. L’oggetto era lu marranzanu, lo scacciapensieri.
Lo scacciapensieri si dice sia stato chiamato così per via della frequenza prodotta che entra in risonanza con il cervello, inducendo uno stato ipnotico di rilassamento. Io tutto ciò me lo immagino come una serie di vibrazioni, che colpo dopo colpo, strappano via i pensieri dalla testa e li lasciano librare nell’aria. Con un rito sciamanico, Virginia stava diffondendo pensieri, le nostre teste erano tutte retini pronti a catturarli come farfalle. Il suono della scacciapensieri mi rimandò a qualcosa di remoto, oltre memoria d’uomo. Mi vennero in mente le colline in Agosto, ampie e pettinate d’oro, Enna, Leonforte, Nicosia, il fumo nero di un incendio in lontananza, l’aria immobile. Poi mi venne in mente un corteo di contadini proveniente da un sentiero polveroso e distante che avanzava verso di me, zoppicando e rimbalzando come il timbro del marranzano. Si tenevano tutti per mano come a formare una lunghissima catena e la luce del sole, bianca e intensissima, li sospingeva da dietro tanto che, alla mia vista, sembravano tutte figure di carta nera ritagliata. Era una immagine bella e infausta allo stesso tempo.
Mi ricordava Elio Vittorini, quella nostalgia tenuta a braccetto dalla malinconia e dalla semplicità, sprofondai in uno stato idilliaco e soporifero.
Virginia terminò il suo pezzo. Aspettò due folate di vento prima di introdurci Renzino Barbera, si prese tutto il tempo necessario a soddisfare il suo innato talento teatrale e a sfogare un pò di commozione, sincera. Il milanese, come Giano Bifronte, oscillava tra le due sponde, diffidando per la presunzione del primo e mosso da un velo di pietà per la seconda. Non è mai facile capire in Sicilia dove finisce l’arte del melodramma e dove comincia l’estratto dei sentimenti e Virginia ne era la riprova. Bisogna stare sempre allerta e non indulgere mai, pena un imbarazzante senso del ridicolo. Il milanese lo sapeva bene, da lui le parole viaggiano veloci su un filo d’aria, mai calzate, surreali ma sempre con un piede sulla terra. Gli sarebbe piaciuto Renzino Barbera con quel modo schietto e intelligente di dire le cose, mai sopra le righe.
Quando Virginia riprese a parlare, era cambiata. I lineamenti erano più docili, gli occhi avevano perso quella elettricità che li scuoteva ogni secondo. Ci mostrava una Sicilia più intima ora, che aveva sotterrato l’ascia di guerra per narrarci le storie di luoghi e persone a lei care. Renzino aveva sognato quei luoghi e quelle persone e Virginia li interpretava come se quelle visioni le avesse davanti agli occhi in quel momento. Così, mentre recitò L’omu di Sali, improvvisamente divenne inaridita e stremata. Quando gli occhi strabuzzati cercavano le muntagni di sali, io lo potevo vedere, quell’uomo piccino, un’altra figurina nera che spalava al ritmo del marranzano immerso nel candore amaro di montagne di sale. E quando Virginia con la voce dolente e sognante immaginava le muntagni di nivi, ecco che quella figurina prendeva colore, il gelo ristoratore della neve squagliata dallo scirocco non era un’invenzione, era la realtà. E’ che “l’omu di sali” è una poesia che ti senti sulla pelle, sarà che il sale punge, brucia con un ricordo indelebile e che la neve raffredda il corpo e riscalda gli animi. Ma c’è qualcosa in più, un sentimento profondo di comunione con quegli uomini e quei luoghi, come se la penna di Renzino Barbera fosse guidata da quelle figurine nere, verso dopo verso.
Terminata la poesia, Virginia ristette ancora un pò. Poi, il suo viso si inombrò e quando fu sul punto di attaccare con i versi di Sicilia meraviglia si trasformò in una maschera di afflizione, la rabbia degli inizi si era consumata come una candela, erano rimaste lacrime di cera. No, non può Renzino Barbera aver scritto “Sicilia Meraviglia”. Renzino inappuntabile, goliardico, scacciapensieri, era proprio lui che aveva scritto il corvo alato l’ombra nera ha partorito, che ringhia, avanza viscida e melmosa per soffocare il fiato d’ogni cosa, per togliere il respiro ai gelsomini, soffocare di palme le esplosioni? Mi ricordai di poco prima, dentro al museo: accecati dalla bellezza del giovinetto di Mozia, non avevamo occhi per altro, eppure in fondo alla stanza, nell’angolo più lontano e appeso a mezza altezza, notai un buco nero, la maschera del sorriso sardonico. Era così enigmatica nella sua semplicità, silenziosamente poneva interrogativi che avrebbero potuto capovolgere il mondo. Non riuscivi a distinguere il dolore dalla burla e il risultato finale era un disagio profondo nell’osservarla, come un imbarazzo di non riuscire a comprendere.
Mi accorgevo solo in quel momento di aver catturato innumerevoli ghigni tiepidi di Renzino ma mai avevo osservato gli occhi, curvi come salici piangenti, che dicevano: Potesse un grido mio fermare quella colata d’ombra, fare scoppiar la gola, ma un giorno qualcuno griderà, qualcuno fatto di noi messi tutti insieme e l’urlo sveglierà la pace e strapperà le penne a quel rapace e l’ombra cederà alla virilità del sole gemendo di piaceri, tornerà la perla nella sua conchiglia e si dirà ancora Sicilia Meraviglia.
Era la maschera sardonica di un uomo che faceva ridere per mestiere ma che piangeva, sommessamente, per la sua Sicilia. E Virginia con lui quando, dopo aver declamato la poesia a testa alta, smise di incrociare i nostri occhi, guardò nel nulla e con la voce commossa e fiera disse “Sicilia Meraviglia”.
Ce ne andammo poco dopo da Mozia, lentamente, nel caldo mezzogiorno della Sicilia. A testa bassa sincronizzavo i miei passi sul battito di un marranzano invisibile. Immaginavo una tarantella veloce, al marranzano si aggiunsero presto l’organetto e il tamburello. Poi il flauto intonò la melodia e coppie di danzatori si alzarono e cominciarono a ballare. Immaginavo una grande festa e Renzino Barbera e Rosa Balistreri insieme, lontano dalle luci del palcoscenico e dalle ombre di una vita difficile, sudata. Cantavano, ballavano, recitavano in una tournèe infinita, una commedia simbolica che toccava tutte le sfumature dell’animo umano, senza più pregiudizi o imposizioni, così a loro piacimento, come gli va! Nelle mani stringevano fili invisibili lunghi lunghi che cullavano Virginia Aloisi e tutti i siciliani.
Per ascoltare Rosa Balistreri:
Per vedere Renzino Barbera:
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