I segreti di uno dei quartieri del centro di Napoli più sottovalutati, affascinanti e complessi: Mercato
Appena usciti da un bar di piazza Guglielmo Pepe, con quell’orgoglio tutto intimo ed esclusivo che si prova dopo aver bevuto un caffè a Napoli, ci infiliamo in via del Carmine con fare furtivo e un poco timoroso.
Napoli è una di quelle città in cui il turista si aggira come in un labirinto, monitorando la situazione e cercando di capire dove si trova, come se dovesse cercare una uscita che in realtà non esiste. Sarà che ci hanno spaventato loro, i napoletani, dicendo che “dappertutto non puoi andare” ma “non ti preoccupare, lo capisci subito se non devi entrare in una via, te lo fanno capire”. E se io non lo avessi capito? Se non avessi intuito i segnali in codice misteriosi che potessero far presagire al peggio? Di solito invece dietro l’angolo non c’è proprio nulla di strano a parte noi o altre sparute coppie di avventurieri che ci fanno tirare un sospiro di sollievo, “ok, via libera”. Da lì comincia uno strano turbine di emozioni che va dall’ebbrezza di sentirsi estraneo, avulso dal contesto, all’imbarazzo di dover frenare un voyeurismo sommesso, cercando sottecchi e a testa bassa lampi di folklore o aneddoti da raccontare. Gli stranieri no. Loro vanno dritti come dei treni, inconsapevoli, trattenendo i sorrisi con delle smorfie improbabili ma, sotto sotto, piangendo di invidia per quella splendida decadenza tutta italiana che non hanno mai potuto vivere. E’ in questo proliferare di strani esseri vagabondi che loro, i napoletani, continuano la loro vita come se niente fosse e le signore appoggiate alle porte-finestra dei vicoli (a Napoli pure le porte sono dei balconi alla faccia della privacy!) devono averci fatto l’abitudine in questi tempi di turismo selvaggio.
Mentre camminiamo lungo via del Carmine, mi viene in mente che anche pensare, parlare o scrivere di Napoli da turista è un po’ come girarla. C’è il rischio di infilarsi in via delle ovvietà o sbattere contro colonne pesanti come Totò e de Filippo.
Ci intimorisce il peso della tradizione, di un dialetto che non si capisce ma che sembra essere in grado di poter dire il dicibile e anche l’indicibile, di meccanismi strani, di una fierezza intoccabile e di disperazione.
Poi però, una volta arrivati in piazza Mercato, tra “i due mari”, quello vero e quello maleodorante del mercato del pesce, nel silenzio di una piazza semivuota, Napoli si denuda. Dice “prendimi, sono tua” indulgendo con la delicatezza sfrontata di un film di Tornatore. Dura il lasso di tempo di un assist sbagliato. Mi distraggono due ragazzini che stanno giocando a calcio in mezzo alla piazza perché, con il gusto del paradosso tipico di Napoli, piazza Mercato è un campo da calcio con tanto di strisce e pali e traverse, palazzo Ottieri è la curva e la chiesa di Santa Croce e Purgatorio è la tribuna d’onore. E io dentro di me brindo alla libertà di chi ha pensato una cosa simile. Mi viene in mente quella volta in cui a Palermo, all’ingresso di una chiesa, vidi un cartello con su scritto: “Il nostro signore ha tanti modi per comunicare con voi, ma state certi che non vi chiamerà mai sul telefonino!”. E’ perchè non hanno mai visto “Dio esiste e vive a Bruxelles”, per loro Dio è ancora un arzillo nonno che gioca a carte e odia le diavolerie moderne. Invece Dio invecchia come tutti, ma al contrario, e se un tempo era arcigno ed austero, oggi chiama i suoi discepoli al cellulare, se lo è perfino inventato lui stesso. E perché mai non dovrebbe giocare a palla tra le quattro mura decrepite di piazza mercato? A me pare un’idea geniale, d’istinto quasi quasi mi unisco a loro.
Mentre mi avvicino al centro del campo, allontanandomi dalla mia compagna di viaggio, mi sembra di abbracciare tutto il mondo.
Per un attimo piazza Mercato ha la stessa forza di Meydān Naqsh-e Jahān a Esfahan o di Shah Ceragh a Shiraz e quelle casupole che si stringono intorno alla chiesa di Santa Croce mi sembrano la cornice perfetta per le vicende, i malaffari e le zizzanie di tutti i popoli, Masaniello contro Abbas I il grande, Madamin Beck contro Corradino di Svevia. I mercati sono l’agorà del popolo, dove egli esercita il suo potere, nei retrobottega si tessono le trame della commedia quotidiana.
Siete mai andati a provarvi un paio di scarpe nel retro di una bancarella al mercato? Una volta, a San Pietroburgo – Sennaya Plochad, là dove Raskolnikov delirante meditava di uccidere la vecchia, mi è capitato di visitare il retrobottega di un Uzbeko. Era pieno di post-it in lingue sconosciute, aberranti cartoline ingiallite, foto segnaletiche di ragazzini e di gruppi in vacanza, fatture incrostate accanto a pacchiane pergamene di preghiere islamiche. Poi scatole di scarpe in ogni dove e quell’odore penetrante di cuoio misto a qualche spezia esotica proveniente dalla trattoria vicino. Una meraviglia postmoderna. Mi sentivo come in un camerino prima della prima, quando sarei uscito tutti avrebbero guardato me con le mie nuove scarpe contraffatte. Ero nel dietro le quinte dell’economia reale.
“Dove cazzo vai?” Così mi risvegli mentre sto sognando la cabina di comando dell’uzbeko, con la mano tesa a reclamare un passaggio dai guaglioni di piazza Mercato. Allora torno in me e, con il fare furtivo di chi ha combinato una marachella e una certa dose di quella tipica effimera disperazione pre-adolescenziale, ti riprendo la mano e proseguiamo dritti tuffandoci dentro Vicolo Sant’Eligio.
“Sembra di essere in Francia” penso a voce alta con un tono di sentita meraviglia. Sembra veramente di essere in Francia con quell’arco grazioso posto sopra le nostre teste tenuto a spalle da un lato dalla vecchia severa Sant’Eligio e dall’altro dai nuovi rampanti condomini che, capitanati da palazzo Ottieri, sembrano sul punto di serrare le file per schiacciare il centro storico. Il tufo slanciato della chiesa, impettito e ambizioso, si distingue da tutto il resto. Sì, siamo in Francia.
Accade solo in Italia la magia di poter girare l’angolo e trovare un nuovo paese o uno stile diverso. Sarà che le nostre sponde hanno fatto sempre gola a molti, sembrano le curve di una donna che si divincola ma alla fine si lascia possedere. E proprio come una donna posseduta da molti, finisce per non sapere più chi è, si lascia trascinare da tutti e spergiura contro sé stessa, per essere troppo ingenua, per non sapersi gestire.
Attraversiamo tutta via San Giovanni a Mare, osservando l’alternarsi caotico di palazzi vecchi e nuovi, tutti sfatti, i casalinghi e i fruttivendoli gestiti da facce torve che passeggiano avanti e indietro al loro locale, le serrande socchiuse che mal celano situazioni ambigue, nullafacenti, venditori abusivi. Un presepe dinamico e vissuto. A metà via facciamo timorosamente capolino su rua Francesca, spaventati dalle orde di motorini che si fiondano all’impazzata verso di noi. Un filo di vento fa veleggiare le lenzuola appese ai filari di un balcone all’ultimo piano di un edificio e del dirimpettaio. La rua è talmente stretta che per un attimo le due si baciano, poi tornano docilmente al loro posto. In alto una striscia finissima di cielo bianco latte.
Proseguendo su Via de Giubbonari, oltrepassiamo un posteggiatore seduto sul suo sgabello in mezzo al perimetro di un parcheggio, un isolato dopo ce n’è un altro, poi ancora un altro. Hanno la calma olimpica di lavoratori notturni, gli basta un buon spacciatore di settimane enigmistiche e “oggi” e per il resto potrebbero passarci un’esistenza sulla strada.
Se solo Beckett fosse passato da queste parti avrebbe potuto scriverci sopra un ciclo di drammi niente male: uno sgabello, un uomo, un fondale di pareti decrepite, l’attesa.
“Ecco: una città in cui non potrei vivere è Napoli, non sopporterei l’idea di dover pagare abusivamente i parcheggi tutti i santi giorni!” fai tu ridendo, con quella risata un po’ divertita e un po’ isterica, quando pensi di aver mirato giusto ma di averla sparata troppo grossa.
“Ma non hai una macchina!” gli rispondo io, divertito. Poi rilancio: “Sì, effettivamente potrebbe essere una bella rottura di scatole. Ma penso che per loro oramai sia un’abitudine, qualcosa che danno per scontato”. Mentre dico questo, ripenso a quel film “Napolislam” e ciò che avevo provato guardandolo. Non riuscivo a capire come Napoli e Islam potessero andare così d’accordo, nel film sembrano fondersi perfettamente creando un immaginario comune, un po’ come nel titolo. Sicuramente Napoli e Medio-oriente hanno molto in comune a cominciare da un certo approccio alla vita, ritmi circadiani simili, lo stesso attaccamento alle radici e alle origini ma tutto ciò non poteva bastare per giustificare un film. C’era qualcosa di più profondo che le accomunava. Ora guardando quei posteggiatori ritagliarsi il loro spazio nell’economia reale, mi sembra di aver intuito. E’ che a Napoli, quando accadono certe cose, non è che ci puoi stare tanto a pensare, è una questione di fede, è il popolo che lo ha deciso. E’ come una religione di cui abbiamo sentito parlare, ma è così lontana nei modi e nei gesti che non la capiamo, come l’islam. Il nostro cristianesimo laico invece ce lo hanno somministrato in maniera diversa, lo abbiamo vivisezionato, contrastato o ossequiato a seconda dei casi e delle famiglie ma in entrambi i casi in maniera discreta, tenendo sempre l’elemento segreto, la magia, nell’ultimo cassetto del comodino, chiuso a chiave.
E’ questa fusione imprevedibile di fede, popolo e divino che è frastornante per noi che sbarchiamo qui con uno zaino di risposte già pronte e ci portiamo via un pezzettino di vita.
“Pensala come ad una forma di assistenzialismo sociale. Se lo stato non dà lavoro, loro se lo creano da soli. Se lo guardi da un certo punto di vista ha senso, no? Finché il popolo si sostiene e si regola da solo con tanti piccoli escamotage innocui tutto questo potrebbe anche funzionare. I problemi ci sono quando questo equilibrio si spezza e qualcosa o qualcuno prende il sopravvento…” aggiungo qualche minuto dopo con un fastidiosissimo tono didattico chiosando i miei vaghi pensieri con una conclusione da real politik di quarto ordine.
“Fatto sta che le cose non stanno funzionando. Ma è comunque affascinante in un certo senso…” ribatti, chiudendo la conversazione, mentre stiamo cavalcando via Duomo. In fondo ci aspetta Piazza Amore, è un po’ come “uscir a riveder le stelle”. Dopo i fumi e le miserie di Mercato, i quattro colossi uniformi color caramello ripuliscono tutte le nostre riflessioni e stiamo in silenzio per un po’. L’ampiezza della piazza da più spazio alla luce del sole, ti abbraccio più forte e proseguiamo lungo il semicerchio fino ad attraversarla da parte a parte. Mi sento un po’ più leggero, come se avessi finalmente scaricato un po’ di ricordi scomodi degli ultimi tempi, sto bene. L’aria è lievemente frizzante, la primavera incombe. Mi viene in mente una signora che conoscemmo a Palermo, aveva il tipico piglio riottoso delle donne siciliane, di quelle che combattono per tutta la loro esistenza al fronte della vita, sempre in prima linea. Diceva che odiava i Palermitani e che secondo lei i migliori in assoluto erano i Napoletani e quando io, incalzandola, le chiesi il perché lei mi disse: “Perché vivono bene. Vedi, qui a Palermo tutti se ne fregano di tutti ma questo non gli impedisce di farsi gli affari degli altri. E poi siamo chiusi, è come se tutti costruissero un muro di cemento davanti a loro e poi guardassero fuori da uno spioncino. Non li capisco io, i miei concittadini. Loro di Napoli invece si vogliono bene, fanno sempre feste e si divertono. Io ho tanti amici napoletani ed ogni volta che ci incontriamo è come se fosse carnevale, c’è da ridere dalla mattina alla sera. In quanto ai problemi, beh… entrambi ne abbiamo. Ma loro non si piangono addosso, vivono sempre col sorriso sulle labbra e hanno mille risorse.”
E io pensai che se si fosse aperta con i suoi concittadini come aveva fatto con noi, appena chiusa la porta di casa e scesa in strada avrebbe incontrato un sacco di napoletani. Decine, centinaia, migliaia di napoletani.
[L’autore di questo racconto è Leopold Bloom]
2 commenti
Complimenti per l’articolo!
servono articoli così per valorizzare nuovamente Napoli dopo tutte queste brutte notizie che sentiamo in tv e leggiamo sui giornali.
Grazie Here & There! Sono commenti così che ci spingono a fare sempre del nostro meglio nel raccontare alcune realtà spesso bistrattate, a torto. Buon anno!