Karakol, tra le montagne celesti in Kirghizistan
[Day 129 – 130] Da Almaty a Karakol, il nostro primo sconfinamento via terra
Attraversiamo il nostro primo confine terrestre asiatico di sempre alle 2:15 di notte. In mezzo c’è un fiume, una bandiera rossa con un simbolo giallo e una gigantesca scritta al neon: Kirghizistan.
Subiamo un po di depressione post-kazakistan: tanto erano colorati e affabili i kazakhi, tanto sono sornioni e sulle loro i kirghisi. Come in ogni parte del mondo, la montagna indurisce le persone.
A Karakol le montagne sono ancor più belle e ancor più vicine di Almaty ma è come se facessi fatica a toccarle. Ospitali ma introverse come i loro abitanti. Non ci sentiamo preparati, ci sono trekking tra i più belli al mondo dicono, ma sono abbastanza impegnativi.
Eppure i paesaggi sono incredibili: Karakol e il lago Issyk-kul giacciono in mezzo ad un canalone immenso chiuso tra il range del Tien Shan che confina con il Kazakistan e il range del Tien Shan che confina con la Cina. Pendii vellutati, montagne arcigne ed una steppa carica di colori.
Karakol è una città pigra e inerte, nonostante sia una delle destinazioni di punta dei trekker di ogni parte del mondo e il centro del Turkestan, ovvero di quella regione storica che va dalla Mongolia all’ Uzbekistan. L’unione sovietica ci ha messo del suo, costruendo un reticolato asfittico di strade larghe ed edifici grigi e alieni. Appena si esce dal centro però villette colorate che sembrano uscite da una fiaba e i bimbi che giocano per strada e ci salutano, ci rimettono un po in pace con il mondo.
[Day 131 – 132] Karakol e dintorni: Non siamo mica gli americani!
Se Karakol si trovasse in Europa o Stati Uniti bisognerebbe costruire tre aeroporti internazionali per poter gestire il traffico di viaggiatori ad Agosto. Per fortuna (nostra) non è così e il turismo c’è ma non è troppo invasivo. Le possibilità di questa città, che il paese sta cercando da anni di innalzare a capitale del turismo, sono infinite: d’inverno impianti sciistici, d’estate metà di hiking e trekking. Il secondo lago di montagna più esteso al mondo (dopo il Titicaca in Perù/Bolivia) che i locali trattano come fosse un vero e proprio mare. E poi ancora montagne da 7000 metri e una storia complessa che fonde il capitolo sovietico con le migrazioni dalla cina, tradizioni persiane e l’antica cultura nomade.
Infine le due perle che abbiamo visitato: Skazka (che significa fiaba in russo), l’incredibile canyon dai mille colori e dalle mille forme che sembra uscito dall’Arizona o dalla Cappadocia, solo che intorno ci sono montagne innevate immense da un lato e l’acqua limpida del lago Issyk-Kul dall’altro. Le foto che vi mostriamo non hanno filtri, quelli sono i colori reali di Skazka illuminata dagli ultimi bagliori del sole poco prima che sopraggiungesse la pioggia.
L’altra meraviglia si chiama Jety Oguz, un paradiso alpino racchiuso da formazioni rocciose color rosso vivido dette i “Sette Tori”. Una camminata tranquilla accanto ad uno splendido torrente porta alla valle dei fiori dove le montagne si aprono lasciando il posto a prati verdi, pinete meravigliose e una miriade di yurte, le tradizionali tende kirghise da accampamento nomade.
Le vite degli altri: Julia e Elvira a Karakol
Conosciamo Elvira e sua mamma Julia al ristorante Kalinka. Siamo attirati dalla vivace bimbetta che attraversa di continuo il ristorante e che poi scopriamo essere una delle figlie del fratello di Elvira. Julia è insegnante di russo all’università e non parla inglese, ma ha un sorriso dolce e accogliente. E’ appassionata e briosa e si da un gran daffare per chiacchierare con noi e dove non riesce chiede ad Elvira di tradurre. Elvira ha 20 anni, è più posata, ha un ottimo inglese frutto del suo anno di studio a New York durante le superiori ed è un pò imbarazzata dalla foga entusiasta della madre.
Julia vuole assolutamente averci come ospiti, non possiamo dormire da loro perchè abbiamo già prenotato una notte in guesthouse e quindi ci invitano a pranzo per il giorno seguente, nonostante debbano partire nel pomeriggio per celebrare in un villaggio vicino l’anniversario della scomparsa di un parente.
Verso le 11 della mattina seguente ad accoglierci nella loro casa ci sono Julia, Elvira, il fratello di Elvira con sua moglie e i 4 figli. Il marito di Julia è al lavoro nonostante sia domenica. Sembra lavori come ingegnere per qualche progetto inerente ai missili Torpedo, talmente segreto che neanche Elvira sa bene che cosa faccia.
L’ospitalità Kirghisa è la stessa che abbiamo imparato a conoscere nei nostri viaggi in medio oriente e in asia centrale: una vera e propria vocazione all’accoglienza, aprire davanti allo straniero la cassaforte dei segreti e delle tradizioni del luogo. A casa di Julia ci sono ben due stanze per accogliere gli ospiti, una tradizionale e una all’occidentale. Noi, con nostro sommo piacere, eravamo in quella tradizionale. Ci troviamo davanti ad un tavolo imbandito di piatti e vassoi, almeno 10, nonostante più volte Julia si scusi per la scarsa abbondanza del cibo dovuto al fatto che non ha avuto abbastanza tempo per preparare. Sul tavolo ci sono Boorsok, carne di agnello, Ashlyanfu, Cakcak, Tokoc e delle marmellate buonissime, tutto fatto in casa. Julia vorrebbe dirci un sacco di cose ma Elvira non riesce neanche a tradurle perchè la mamma parla in modo forbito e aulico, deformazione professionale.
Le tradizioni Kirghise sono tantissime e complesse. Risentono di secoli di dominazioni e di migrazioni: sono islamici ma in una maniera tutta loro, risentono dell’influsso della cultura persiana che abbraccia tutta l’area che dall’Iran sale in Uzbekistan, Afghanistan e Tajikistan. Poi il dominio sovietico che ovviamente ha lasciato il segno, la cultura nomade e la cultura Dungan, ovvero quella dei cinesi musulmani. Festeggiano Eid-Ul-Adha, la festa del montone, come gli islamici ma anche il Nowruz, il capodanno persiano. Inoltre perseverano ancora tradizioni antichissime pre-islamiche come Ala-Kachuu, il “ratto della sposa”, ovvero il rapimento della futura sposa da parte del marito, oggi illegale nel paese ma ancora presente nella cultura Kirghisa. Elvira ci ha spiegato che, ancora oggi, in un pranzo tradizionale Kirghiso ogni persona ha il suo preciso posto a tavola a seconda della sua posizione familiare e che i riti da effettuare sono decine.
Concludiamo il pranzo con la benedizione tipica Kirghisa e, in breve, ci congediamo con affettuosi e commossi saluti. Mi rendo conto che nel 2018 tutto questo possa sembrare anacronistico ma d’altra parte è la tradizione l’unica cosa che tiene legati i popoli e queste tradizioni sono così potenti che hanno sconfitto nemici durissimi, tra tutti lo zarismo e il comunismo sovietico. Ora però i tempi stanno cambiando: la società moderna, il turismo dilagante e internet hanno aperto un mondo ai giovani di tutto il pianeta. Elvira è molto diversa da Julia come noi siamo diversi dai nostri genitori. Le tradizioni sopravviveranno anche a questa ultima battaglia?