Diyarbakir (o Amed) in Turchia
Diyarbakir sembra non esistere. Alla stazione dei bus nessuna tabella indica il suo nome, quando chiediamo come arrivarci inizia un percorso tortuoso fatto di attese e direzioni imprecise.
Strano, perchè Diyarbakir conta un milione di abitanti ed è la capitale morale dell’ “innominabile” kurdistan turco (inesistente anch’esso), come è possibile nasconderla sotto al tappeto?
Alla fine è un minivan dai vetri scuri e senza insegne a portarci a destinazione. La strada è disseminata di checkpoint da brividi, tank, mitragliatrici, barriere antisfondamento e blocchi di cemento. La città, placida e generosa, sembra sotto assedio: cosa sta succedendo? Nulla. Dopo anni di guerra civile, Diyarbakir tira un lungo respiro che sembra non finire mai e rimane sul collo il fiato del governo turco che attanaglia. Le piazze sono ricolme di bandierine rosse con la mezzaluna, quelle dell’HDP invece, il principale partito kurdo, sventolano timide lungo qualche via secondaria. La battaglia non è ancora finita.
Diyarbakir, costruita su un’ansa del leggendario fiume Tigri, è una delle città più ruvide e affascinanti che abbia mai visto, mi ricorda la Istanbul degli anni ’90, quella che si vede nei film di Ozpetek. Le sue mura possenti di basalto nero, le seconde più lunghe del mondo dopo la muraglia cinese, la moschea più antica della Turchia, datata al 700 dc, il quinto luogo più sacro per l’islam. E ancora chiese armene e siriache, caravanserai, castelli, chiostri meravigliosi, una medina di vicoli stretti e selvaggi dove vive la classe più povera della società.
Giriamo per la città vecchia in totale solitudine, i bimbi giocano per le strade, gli uomini spingono carretti colmi di frutta, le donne siedono sulla soglia di casa. I muri delle case sono trivellati di colpi di arma da fuoco. Abbiamo il libretto turistico finanziato dall’Unesco ma è quasi inutile: ci sono chiese senza il tetto o inaccessibili, metà della citta vecchia, bombardata dalla contraerea turca qualche anno fa, è chiusa al transito. È in corso un’operazione di “restyling” architettonico ed etnico. I curdi, gli armeni e i siriani sono stati per la maggioranza cacciati. E per ognuno di loro che se ne va, viene innalzato un vessillo rosso con la mezzaluna.