Leggi questo racconto se ti piacciono le cause perse, se i film di Almodovar ti fanno riflettere e se diventi felice e triste allo stesso tempo quando piove.
Dal nostro viaggio nelle Filippine: il racconto di un tifone che si abbatte su Ilo-Ilo e le sue conseguenze sul cuore e sulla mente.
Ascolta “Filippine: Where Are You Going (parte prima)” su Spreaker.
PARTE PRIMA
Il tifone Sanba era arrivato. Ne avevo sentito l’odore quella notte, fiato caldo e umido come quello di un cane bagnato. Avevo aperto gli occhi e mi ero fiondato alla finestra della nostra camera di albergo, scostando di lato la tendina: nuvole nere e gonfie viaggiavano velocissime, l’una sull’altra.
I pinoy lo avevano chiamato Basyan in lingua Tagalog, perchè era il secondo tifone dall’inizio dell’anno. Un nome per ogni lettera dell’alfabeto, come un elenco telefonico o un registro di appello. Un gesto affettuoso e rispettoso rivolto ad un amico-nemico, esorcizzazione del timore ancestrale nei confronti della natura:
“Basyan?”
“Presente!”
Non piovve subito quella mattina, il cielo lanciò un attacco premeditato verso le 11, proprio quando decidemmo di uscire. Le nuvole si compattarono creando un’enorme parete plumbea sopra di noi, in lontananza una spirale violenta di acqua si abbatteva su qualche villaggio vicino. Cominciò debolmente mentre stavamo camminando lungo Delgado Street con sporadiche gocce d’acqua salvo poi intensificarsi seriamente appena svoltammo su Iznart Street.

La city proper di Ilo-ilo era una officina meccanica a cielo aperto. Lungo le sue strade solo cemento e ferro e qualche insegna al neon. Di giorno era invasa dai trike e dalle jeepney, di notte era un quartiere fantasma fatto di ombre lunghe e scheletri di metallo. La pioggia ne evidenziava il suo carattere cyber-punk: un guazzabuglio decadente di case coloniali sfitte, mefitici negozi di hi-tech e venditori occasionali di frutta svuotato di ogni vitalità. Ilo-Ilo stava risorgendo da un’altra parte, a nord, e la city proper era un anziano malato terminale che aveva spadroneggiato durante il colonialismo spagnolo e americano e che non voleva morire. I marciapiedi di Iznart Street sembravano delle mulattiere urbane, stretti ed erosi dal tempo, buche profonde di cui non si vedeva la fine, degli edifici sfigurati rimanevano solo le insegne alla memoria, “Constructed 1928”.
La pioggia accelerò talmente tanto che, ad un certo punto, il picchiettare frenetico delle gocce sul manto stradale e le spazzolate di vento umido sovrastarono qualsiasi altro rumore. Tentammo di ripararci sotto le tettoie delle case, dribblando tavole imbandite di manghi luminosi, corone di bananitos e signore intente a pelare jackfruit giganti. Non c’era proprio posto per chi volesse camminare in Iznart Street. Ci fermammo un secondo per rifiatare e cercare di capire come procedere oltre senza inzupparci completamente. Guardai verso il centro della strada: giovani madri con bimbi al seguito mi guardavano dai finestrini delle jeepney con lo sguardo in bilico tra sorpresa, ammirazione, pietà e sollievo. Erano decine e decine i visi che scorrevano davanti ai miei occhi in un traffico impazzito. Le jeepney sostavano giusto il tempo di caricare le persone o di attendere il semaforo e ripartivano rombando.

Per un istante mi balenò l’idea di saltare dentro una jeepney giusto per sfogare la frustrazione di essere fermo. Appoggiai un piede sul ciglio della strada, oltre il marciapiede, esponendolo alle intemperie del tifone. Avanzare senza una destinazione ostentando la sicurezza di averne una. Sul fianco delle Jeepney, scritte a mano con colori esuberanti e calligrafia leziosa erano presenti tutte le fermate: SM city, Tagbak Terminal, Mandurriao, Jaro Plaza. Come avere un borsello pieno di numeri ed estrarli a caso. Quei nomi rappresentavano case, persone ed esperienze che nel 90% dei casi non avremmo mai visto o provato.
Gettare una luce su un angolo di mondo sconosciuto, entrare nelle case delle persone, affacciarsi nei vicoli più bui per osservare il fluire lento delle retrobotteghe, i panni stesi, le ventole dei condizionatori esausti: erano tutti momenti di inaudita ebbrezza, una sete di conoscenza che mi faceva paura perchè non aveva un fine e, ogni volta che bevevo, dopo il sollievo iniziale, sentivo un vuoto dentro. Aveva senso questa grande rincorsa al mondo se poi non si conoscevano nemmeno i dettagli di se stessi?
Cogliendo il mio momento di empasse, una jeepney si fermò proprio davanti a me. L’autista allungò il collo fuori dal finestrino e mi disse:
“Where are you going?”
Era una domanda innocente ma che scavava profondamente nel mio inconscio, molto più di quanto si aspettasse il mio interlocutore. Ai bimbi di Puerto Princesa e alle madri di Apo Island avevo saputo rispondere con fermezza:
“Nactabon!”
“The school! I’m looking for the school!”
Ma qui a Ilo-Ilo, il traffico e la violenza del tifone mi avevano lasciato disarmato in balìa degli eventi.

La verità era che quella domanda destava in me terrore ed angoscia e la via più naturale di difendermi era quella di fuggire. Per questo ogni volta che ogni volta che qualcuno mi chiedeva “Where are you going?”, il mio primo impulso era quello di camminare nella direzione opposta, allontanarmi da chi voleva sapere troppo anche se in realtà non voleva sapere nulla in particolare.
Declinai l’offerta dell’autista con un gesto scomposto della mano e risalì per intero sul marciapiede. La jeepney ripartì offesa, sgommando e scoppiettando, sembrava un trattore su un campo arato. A volte provavo una pena inspiegabile per quei ferrivecchi che si trascinavano malandati da una parte all’altra della città, dei muli da soma a vapore.
Where
Are
You
Going
Quelle quattro parole rimbalzavano nella mia testa all’infinito e non volevano uscire.
Erano un richiamo all’ordine, come se ci fosse UN posto dove andare e non tanti. UN posto dove andare, UN lavoro da compiere, UN letto per dormire, UN piatto per mangiare. Tutte le jeepney di Ilo-Ilo, in coro, con voce imperante, rispondevano che io lo avevo un posto dove andare: davanti ad una scrivania e non su un marciapiede di Ilo-Ilo, sudato, aspettando che passasse il tifone.
Mi rimisi in marcia per cercare di ritrovare lucidità. Superammo Iznart Street e imboccammo Bonifacio Drive fino a raggiungere il Taytay Forbes Bridge che collegava la City Proper con il quartiere di La Paz. Continuammo quindi su Luna Street. Aldilà del ponte il traffico di auto si faceva più insistente, i viali erano più grandi ma anche più turbolenti. La sensazione era quella di essere sbarcati solo ora sulla terraferma, Ilo-Ilo si era rimessa improvvisamente in moto. La pioggia continuava a battere senza sosta e senza pietà. A metà via, il marciapiede si allargava verso l’esterno fino a formare una rientranza sovrastata da una tettoia. Era pieno di gente in attesa che la furia del tifone si placasse. C’erano uomini seduti sui gradini d’ingresso di un edificio e ragazzini in equilibrio sui corrimano, giovani appoggiati alle pareti che vendevano miele e conserve, donne che allattavano neonati. In fondo al piazzale coperto, c’era una porta a vetri scorrevole sopra alla quale campeggiava la scritta a caratteri rossi su sfondo bianco del centro commerciale Robinson.

Ne avevamo visti parecchi fino a quel momento nelle Filippine. Mi ricordavo ad esempio di quello a Manila che aveva un’insegna roboante che arrivava fino alla luna e dentro era fresco e luminoso. Lasciare l’impasto torbido di calura e umidità della stagione secca per abbracciare i cicloni di aria fredda ma netta del Robinson ti faceva sentire una persona migliore. Eppure c’era sempre una sorta di imbarazzo prima di varcare la soglia, una pudicizia interiore che ti faceva domandare ogni volta a te stesso se era veramente necessario affidarsi alle cure di un prodotto del turbocapitalismo e attentatore della diversificazione: la risposta era quasi sempre… sì.
I filippini, dal canto loro, non si ponevano neanche la domanda: coppie e famiglie affollavano i Robinson a qualunque ora del giorno, un paradiso polare per la classe media fatto di peluche colorati, creme sbiancanti e make-up coreani. E come biasimarli? Aria condizionata e coca-cola sono il segreto della felicità. E tu, che eri venuto qua armato di penna e fotocamera per vivisezionare un cadavere, ad un certo punto ti eri accorto che non c’era nulla da studiare o cercare.
Perchè la verità è che le Filippine sono un posto talmente semplice che è complicato descriverlo.
Ogni volta che ci provavo, a bassa voce nella mia testa o al telefono, mi venivano in mente signore sorridenti. Signore che preparano Bulalo o Inasal in strada, signore che cambiano le lenzuola dentro camere d’albergo, signore che smerciano caramelle o patatine dietro grate di ferro. Dopodichè mi bloccavo. Mi ricordavo di quella volta in cui tu avevi la febbre e la nostra camera d’albergo era in overbooking e ci misi una mezz’ora buona per capire che l’inserviente che sorrideva continuamente non mi stava prendendo in giro. Aveva un sorriso largo che diceva: “Va bene, ora sistemiamo, non te la prendere”. Era un modo di vivere, sicuramente diverso dal mio, dal nostro, non è detto che fosse migliore o peggiore. Tante volte mi chiedevo: come reagirebbe oggi questo paese di fronte ad una guerra? Stentavo a riconoscere tra loro i volti di Andrès Bonifacio o Josè Rizal che scriveva: “Muoio senza vedere l’aurora brillare sulla mia patria!” Eroi ed intellettuali che non hanno nulla a che fare né con le tribù di allora né con la borghesia di oggi. E che cosa hanno queste ultime da vendere? Pazienza, tolleranza, istinto di sopravvivenza. Basterebbero?

PARTE SECONDA
Entrammo nel Robinson. Come ogni volta ci fermammo a guardare, muti e atterriti, la maestosità di quei colossi di cemento candido. Sembravano delle installazioni di Escher costruite in Antartide: 10°C, volte e cupole bianche, scale mobili che salivano all’infinito. Cominciammo a camminare in avanti senza meta per favorire lo scambio termico e recuperare qualche minuto da spendere nell’inferno di Ilo-Ilo. Qui dentro nessuno ci chiedeva dove stessimo andando: nonostante le centinaia di direzioni, gli ascensori trasparenti, terrazze, corridoi, ingressi e uscite invisibili, c’era sempre una forza centrifuga che ti riportava verso l’uscita. Un sorta di nastro di Moebius per cui, dopo innumerevoli capovolgimenti di fronte, ti ritrovavi al punto di partenza. Era una sicurezza da un certo punto di vista, quella di non dover per forza avere un posto dove andare, il Robinson lo avrebbe scelto per te. I negozi al suo interno erano un po’ simili ai nostri, nelle food court Jollybee e Mang Inasal erano assediati da fusion italiane o giapponesi. Noi strisciavamo lungo i corridoi senza fermarci, lasciandoci alle spalle vetrine colorate e luminose, era come essere in uno di quei musei giganti in cui dopo un pò tiri dritto oltre le teche senza guardare: troppe cose e poco tempo.
Rimbalzammo verso l’uscita dopo 20 minuti di aria condizionata. Fuori, oltre le grandi porte a vetri, il vento alzava la polvere e scuoteva gli alberi. I vetri oscurati e satinati creavano un gioco di ombre per cui, tutto quello che era fuori, risultava più cupo e minaccioso.
Dal piccolo angolo di cielo che riuscivo a scorgere dall’interno del Robinson emergeva un strano sentimento di entusiasmo e tristezza che mi fece ripensare alla prima volta che lessi San Giovanni annunciare le sette trombe del giudizio. Il tifone Sanba in Technicolor.
In ogni caso sembrava avesse smesso di piovere e uscimmo dal centro commerciale. La calura cominciò a staccarmi di dosso con violenza lo strato di fresco accumulato dentro il Robinson, una vera e propria seconda pelle. Dopo due minuti eravamo di nuovo daccapo, al caldo di qui non ci si abitua mai, ci si può solo rassegnare. Attraversammo la strada grazie ad uno di quei cavalcavia pedonali che qui sembrano piacere molto. “No Jaywalking” è la parola d’ordine, come se fosse illegale avere due gambe al posto di quattro ruote, la mutazione genetica dei nostri tempi. All’altro capo del cavalcavia iniziava Huevarna Street, la imboccammo e continuammo a camminare.
Lungo la via, cominciò a comparire a poco a poco una miseria laida e strisciante niente a che fare con la dignità a brandelli che avevamo visto prima nella City Proper. Anziani venditori di cibo e suppellettili stesi sul marciapiede con l’aria di chi non ha veramente intenzione di vendere qualcosa, come se ripetessero strenuamente un rituale, giorno dopo giorno, fino a che il fisico non li avesse abbandonati definitivamente. Odore di mercato, pensai. Avanzammo con cautela e imbarazzo come se stessimo attraversando il viale di un cimitero pieno di lapidi. C’era un gran movimento ma era tutto fermo, non so spiegarlo bene. Gli anziani erano stesi su sdraio o seduti per terra e vendevano tutti le stesse cose, come se ci fosse UN modo di vendere le cose, UN modo di comprarle e non tanti.

Spesso erano bustine di plastica monoporzione contenenti una sorpresa che non valeva la pena di essere scoperta: patatine fritte insipide, caramelle per nulla dolci, shampoo di multinazionali francesi. La bustine invece avevano dei colori brillanti e sembravano contenere il segreto della felicità. Tanti istanti di felicità usa e getta che ricoprivano i canali e i prati di Ilo-Ilo e di tutte le Filippine. Che tristezza vedere quei fiumi di merda! Pensai che i missionari spagnoli e americani avevano sbagliato tutto nel predicare in queste terre così fragili. I Filippini avrebbero avuto il diritto di sistemarsi da soli e non aspettare che un dio lo facesse per loro.
Avrebbero dovuto adorare una Madre Terra più che un Padre Nostro. Poco dopo però mi pentii di quello che avevo pensato: ero l’ennesimo europeo in cerca di un Klondike per pulirsi la coscienza.
La mia mente arretrò fino a riportarmi al via: che cosa ci facevo lì?
Where
Are
You
Going
Di nuovo scosso, mi appoggiai smarrito al palo di un semaforo. Il caldo aveva allentato la morsa e non c’era più odore di pioggia. Un bagliore giallo tisico illuminò una nuvola, forse il temporale era definitivamente alle spalle. Alzai la testa e notai che eravamo arrivati all’incrocio con Burgos Street. Dall’altro lato della strada c’era un grosso caseggiato attorno a cui ruotavano una moltitudine di persone, come fosse un formicaio. Tra le diverse insegne che lo tappezzavano, la più grande recitava: “La Paz Market”.
Una delle cose che mi piaceva delle Filippine era questo strano miscuglio di lingue che si trascinava dietro da secoli, lo stesso Tagalog era infarcito di termini inglesi e spagnoli. Per noi europei era un po’ come viaggiare e sognare di viaggiare allo stesso tempo, leggendo La Paz Market potevi immaginare di essere perfino in Colombia.
Non era solo una questione di linguaggio: ero certo che qualche eco del colonialismo spagnolo fosse rimbalzato alla stessa maniera tra il Sudamerica e le Filippine, non solo le cose più ovvie come i fiumi di case variopinte a Baguio e le mirabolanti parate di carnevale, ma anche una particolare e caratterizzante attitudine ai movimenti caldi e ai colori. Come se una bretella sensuale compresa tra il tropico del cancro e l’equatore unisse questi due mondi così lontani.

Attirati dall’insegna, attraversammo la strada per raggiungere l’edificio. Le mura perimetrali del La Paz Market si estendevano all’infinito e causa il trambusto non si riusciva a scorgerne la fine. Frotte di persone vi entravamo e vi uscivano attraverso dei passaggi posti a distanza di 4/5 metri l’uno dall’altro. TANTI modi di entrare e TANTI modi di uscire. Ogni centimetro era occupato da venditori occasionali, ammassati uno accanto all’altro. I più benestanti poggiavano la loro merce su tavole graffiate e arrugginite, gli altri a terra su tovaglie sfilacciate. Entrammo come in un vortice quando tentammo di avvicinarci ad uno degli ingressi, eravamo impurità in una turbolenza dinamica ma ordinata. Riuscimmo ad entrare sospinti da un’onda compatta di gente e, una volta trascinati dentro, tutto si fece improvvisamente quieto e silenzioso.
PARTE TERZA


Era buio dentro al La Paz Market. Il soffitto era un molle e sconnesso tappeto di lamiere e tendoni rigidi che riparava dall’ infernale sole di mezzogiorno. La luce e la pioggia filtravano dai buchi nel tessuto e dai tagli nel metallo generando lame di luce chiara e uno stillicidio di gocce d’acqua che si posavano a terra formando pozzanghere luminose. La pioggia, complice la pausa pranzo, aveva seminato morte e pestilenza. Il mercato sembrava un oscuro cimitero sotterraneo o le fondamenta di una discarica di rifiuti. Non c’era anima viva. Poco oltre l’ingresso, un informe blocco di carne color porpora era appoggiato sopra un possente bancone di legno ammuffito. Poco più in alto, penzolavano trecce di interiora di animale dalla superficie scabra e disgustosa. Camminammo in avanti e il mercato si ampliò in una miriade di vicoli e incroci, un labirinto mentale in cui potevamo girare senza aver paura di aver sbagliato strada. La via veniva scelta a sensazione, lasciandoci guidare dai rumori in lontananza e dagli odori. A poco a poco che ci avvicinavamo al ventre molle del mercato, comparivano ombre di figure umane e animali rischiarate da fioche lampadine appese alle pareti. I tramezzi dai colori intensi erano divorati dall’umidità e dallo sporco. Oltrepassammo i venditori di riso e i fruttivendoli, quindi era il turno dei pescivendoli. Trote sanguinolente scivolavano lungo le superfici luride dei contenitori. A terra il sangue si mescolava con il fango, con il piscio e con dio solo sa cosa. Passammo oltre come se stessimo attraversando un campo minato. Poco più in là i macellai esponevano le loro carni, una vera e propria mostra delle atrocità, tocchi di carne gonfi e dalle striature verminose. La penombra alimentava il gioco dei contrasti e la polpa rossa macellata sembrava ancor più vivida, il pasto nudo di Borroughs era servito. Steso su una tavola di compensato, un giovanotto paffuto e ricciolino in mutande stava trafficando con il cellulare. Era sgraziato come una pacca di maiale, il lardo lucido di sudore della pancia era incollato al legno, spalmato come una matassa di pasta. Carne da macello su carne da macello, attorno a lui un odore nauseabondo e bestiale, muffa e sterco di uccelli.
Percorremmo tutto quanto il vicolo, in fondo si usciva nuovamente alla luce del giorno dove si trovava un’ala del mercato senza tettoia. Appoggiati al muro, tegami e samovar ribollivano al sole, ora cocente, espirando rivoli di fumo lenti. Qui tutto era più vivace ma anche più aberrante: qualcuno sedeva a terra in attesa del cibo spulciandosi le dita dei piedi, altri dormivano sopra assi di legno marcio nascosti nell’oscurità degli androni che conducevano nelle profondità del mercato, altri ancora leggevano il giornale seduti sul proprio bancone lasciandosi annusare le punte dei piedi penzolanti da cani spelacchiati.

Ma era poco oltre che lo spettacolo diventava indecente, un festival di tutti i vivi e di tutti i morti: al mercato del bestiame non c’era pietà nè per l’uomo, nè per gli animali. Galli vivi al guinzaglio danzavano sopra carcasse di polli, capre e vacche immobili osservavano terrorizzate tranci della loro stessa carne appesi a ganci arrugginiti. A terra, la pavimentazione deforme in pietra era coperta a tratti da cumuli di paglia e letame, piume d’anatra e insetti morti. I Gatti randagi vi spiccavano il volo per zompare sopra i banchi di frutta e verdura incustoditi.
C’era un calore poderoso che sapeva di sangue e terra ed era allo stesso tempo quieto e incendiario come se fossimo al centro del mondo o nel grembo fertile di una madre. Ti investiva dalla cima ai piedi non con la violenza arida delle strade di Ilo-Ilo ma come un caldo abbraccio che ti scioglieva.
Entrammo in uno degli altri cunicoli che conduceva nuovamente nel tetro dedalo di vicoli del mercato. Una mamma stava mangiando con i suoi due bimbi nell’intercapedine compresa tra due tramezzi nella più completa oscurità. Erano seduti su un rialzo di pietra e tenevano il cibo dentro scodelle di latta. I bimbi sembravano frastornati o stanchi, la madre si voltò e mi sorrise. Ricambiai il sorriso e proseguì senza fiatare. Mi rendevo conto che avevamo iniziato a camminare senza guardare quello che ci circondava, come succede quando, presi da pensieri, si rimugina a testa bassa. Eravamo in silenzio da parecchio tempo, dialogavano con i passi e sfiorandoci appena con le mani e con le anche, come se fossimo una presenza sbiadita, uno schizzo a matita l’uno per l’altro. Avevo bisogno di ragionare da solo anche se non sapevo su cosa esattamente. Ero affaticato e frustrato da quelle immagini di desolazione, non volevo vederne più, sebbene, a tratti, un barlume fotografico o un moto di compassione riaccendeva in me un flebile entusiasmo.
Era questo che stavi cercando? Questo era il regno dei cieli che ti salverà da ogni peccato? Scrivine ora, parlane a tutti, dì quanto è commovente e ingiusto vedere la gente che muore con un sorriso.
“Del resto, tutto questo, è bellissimo pel pittore e pel novelliere”
“E’ pittoresco, assai, per un novelliere, girare dopo mezzanotte: e trovare degli uomini che dormono sotto il porticato di San Francesco di Paola… degli uomini che dormono sui banchi dei giardinetti… dei bimbi e delle bimbe che dormono sugli scalini delle chiese… Ma in realtà è molto, molto crudele che tutto questo esista ancora, e che creature umane lo subiscano, e che uomini di cuore sopportino che questo sia”
Le parole di Matilde Serao si abbatterono come uno tsunami sui miei pensieri, li rase al suolo perché l’onda era più potente di loro. Tu non immagini neanche quanto siamo stati lontani in quei momenti, così vicini da sfiorarci ma così lontani. Ero lontano da tutto perchè non capivo.

PARTE QUARTA
“Hey Americano! How are you?”
Furono queste esatte parole a tirarmi fuori dall’acqua, dal naufragio di me stesso. A pronunciarle fu un giovane a torso nudo appoggiato ad una paratia in legno. Alzai lo sguardo e lo colsi in un posa plastica come se fosse lì ad attendermi da tempo. Si muoveva in modo sinuoso, oscillando delicatamente il corpo come una danzatrice del ventre. Il torace era glabro e lucido, né troppo scolpito, né troppo soffice. Potevo vedere chiaramente in lui il viso di una donna, che si agitava come un focolaio baluginante. Mi guardava con un sorriso largo e disinteressato, parlava forte come se non stesse riferendosi solo a me ma ad una moltitudine di persone. Risposi con un cenno del capo e un saluto sommesso che potesse chiudere senza replica. Non feci il minimo cenno alla mia vera nazionalità, d’altronde che importava?
Ero un Americano, uno degli altri, uno dei ricchi. Inoltre non volevo correre il rischio di trovarmi in situazioni imbarazzanti, troppe cose e poco tempo. La verità era che quel tipo mi faceva un pò paura anche se allo stesso tempo mi intrigava. I suoi occhi conducevano verso uno squallore sconosciuto e sotterraneo, un inferno di danze proibite e sessualità travolgenti.
L’uomo ci accompagnò per qualche passo come a indicarci la via ma senza costringerci a prenderla.
How
Are
You
Sentì il cuore appannarsi improvvisamente e la mente era stanca e debole come dopo una sbronza o una notte febbricitante. Una quieta rassegnazione invase il mio corpo con una sensazione calda e benefica.
Al termine della viuzza si parò di fronte a noi un ampio ingresso e in alto l’insegna con la scritta “Madge Cafè”. Entrammo come se fosse stata la nostra naturale destinazione e ci sedemmo attorno ad uno dei tavoli liberi. Il Madge Cafè, nonostante fosse nel cuore del labirinto di vicoli, era ben diverso dal La Paz Market: le pareti bicolore dai toni color verde smeraldo e color panna ne ampliavano le dimensioni a dismisura come in un gioco di specchi e riflessioni. Sembrava una grande piazza all’aperto al tramonto illuminata di sbieco dalle prese d’aria e arieggiata da ventilatori da soffitto. Ordinammo due caffè di pura arabica, sul tavolo bianco screziato c’era solo una zuccheriera riempita di muscovado. Ai tavoli la gente chiacchierava amabilmente, un gruppo di ragazze sorridenti sorseggiava iced coffee. Non riuscivo a capire da dove fosse arrivata tutta quella gente, forse ci aveva preceduto nel nostro percorso infernale? Dietro al bancone una anziana signora preparava caffè alla vecchia maniera, facendo “throwing” tra un bicchiere e un bollitore.

Mi appoggiai con vigore allo schienale della sedia per stiracchiarmi e osservai in alto le pale del ventilatore da soffitto girare vorticosamente. Stavo meglio. Le mie angosce lasciarono spazio ad un senso di ritrovata e insperata libertà, come quando, stesi in riva al mare sulla sabbia, si ripensa ad una nuotata in mare aperto o a delle onde troppo violente per essere cavalcate. Continuai a guardare il soffitto e quelle pale forsennate fino a perdere la cognizione di dove ero, mi lasciai andare ad una visione inquieta e disturbante.
Sognai Miguel Lopez de Legazpi nella sua armatura lucente e la sua tunica di velluto cavalcare in cielo una casupola bianca con fierezza da abile condottiero. Intorno a lui era tutto un volteggiare di angeli candidi e deliziosi putti, alcuni dei quali sorreggevano la casupola, altri invece facevano squillare lunghe trombe dorate o suonavano strani strumenti a corda. La casupola viaggiava veloce attraverso il cielo limpido benedetta da bagliori tenui che sapevano di mattina. All’incirca all’altezza di Ilo-ilo, gli angeli sganciarono Legazpi e la casupola come fossero una bomba, soltanto che in aria volteggiavano leggeri come una piuma di colomba. Tutti videro quell’oggetto immacolato che danzava in cielo al suono di cento trombe e cento violini e ne rimasero affascinati. La casupola atterrò proprio in corrispondenza del La Paz Market e fece collassare tutta la sua parte centrale. Tanto sembrava delicata in aria, tanto era pesante e distruttiva a terra. Sotto di essa, finirono schiacciati decine e decine di mercanti, le pareti di pietra avevano divelto tramezzi e paratìe in legno, nel raggio di 10 metri c’erano solo macerie e frantumi. Quegli uomini che erano rimasti sepolti vivi o a cui la pietra tagliente aveva massacrato arti e organi vitali si dimenavano e gridavano aiuto, ma nessuno li poteva sentire perchè la casupola era bella, di una bellezza assordante con quelle pareti bianche come nessuno aveva mai visto in vita sua.

Un fruscio leggero alle mie spalle seguito da un doppio colpetto secco mi riportarono alla realtà: i caffè erano arrivati. Ci versammo dentro un cucchiaino scarso a testa di zucchero muscovado e mescolammo i nostri bicchieri, sempre in assoluto silenzio, con movimenti speculari e leggermente sfalsati come degli ingranaggi che trasferivano l’uno all’altro la forza per girare il cucchiaino. Guardai te, poi il locale, poi ancora la signora che preparava il caffè alla vecchia maniera, quindi le persone sedute attorno ai tavoli. Al centro della parete che si trovava di fronte a me, notai un quadro dalla forma strana, rettangolare ma con il lato lungo posto sulla verticale. Intuì che rappresentava una scritta ma, nonostante fosse a caratteri cubitali, non riuscivo a leggerla. Non era un problema di lingua o alfabeto, i caratteri da lontano mi sembravano latini, ma era come se ci fosse una sfocatura che non permetteva di leggere. Mi alzai per avvicinarmi al quadro e andare a fondo del mistero. Quando mi vedesti lasciare la sedia, fu come se, anche tu, improvvisamente fossi uscita da un torpore che ti aveva bloccato per ore. Mi chiedesti: Dove stai andando? Ma io non risposi.
Percorsi qualche passo fino ad arrivare ad un metro dal quadro e rimasi lì, impalato, a guardare. La gente doveva aver pensato che fossi matto oppure non ci fece caso, qualcuno mi guardò per un attimo ma distolse immediatamente l’attenzione nei miei confronti e continuò a conversare o sorseggiare caffè. La scritta del quadro recitava:
Time
Is
Gold
La sfocatura che vedevo da lontano era data dal fatto che le lettere che formavano le parole non erano disegnate con caratteri tipografici ma erano composte da persone ritratte in una posa naturale. Ad esempio la T di Time emergeva da un uomo con le braccia allungate verso l’esterno seguendo la linea delle spalle, mentre la G di Gold affiorava dalla voluta di una donna seduta che portava in grembo una piccola balla di fieno.
Quel quadro era semplice e strano, molto strano. Mi ricordava l’inquietudine dei più solitari e maledetti pittori di Spagna, Goya o El Greco pur avendo dei colori tenui e delle linee naif e grossolane. Allo stesso tempo c’erano un ordine e un’armonia di intenti così perfetta, epifanie dall’impero della propaganda sovietica e della ostalghia. Era un quadro coloniale con degli echi profondamente remoti che venivano dall’Europa, come se il vecchio continente avesse comunicato fino ad oggi con telegrafo e codice morse. In un certo senso era anche cristiano, ma nella sua forma più scremata e meno voluttuosa, ripulita dalle intemperanze di Michelangelo e Caravaggio, un quadro da controriforma asiatica.
Quel dipinto creò un cortocircuito tra me e la Storia: ad una prima osservazione, scorrendo con gli occhi quella trama intrecciata di uomini e donne dagli occhi spenti, mi sentivo di nuovo in mezzo ad acque profonde e cavalloni.
Poi però affiorava quella scritta, “Time Is Gold”, ed era come un salvagente che non riuscivo ad afferrare. Per chi il “Tempo è oro”? Per l’osservatore? Per i lavoratori nel dipinto? Per tutti gli uomini?

Frastornato, tornai sui miei passi. Camminavo ciondolante e a testa bassa e rimuginavo. Mi sedetti allo stesso posto e nella stessa identica posizione di prima, come se non mi fossi mai mosso da lì.
“Non c’era bisogno che ti alzassi, bastava chiedermelo. Io riesco perfettamente a leggerlo da qui seduta: Time Is Gold”
Io non risposi. Non c’era molto da aggiungere, mi avevi semplicemente fregato. E tutta la scenetta mi appariva ora estremamente patetica e ridicola. Se invece di affrettarmi ad avvicinarmi, avessi guardato da seduto con maggiore pazienza, senza indugiare in dovizia di particolari ma osservando il dipinto nel suo complesso, l’avrei letta anche io quella frase. Era facile, forse fin troppo facile. Ebbi un sussulto di orgoglio e proclamai con improvvisata superiorità:
“Non volevo leggere la scritta, ma capire meglio com’è stata fatta. E’ abbastanza interessante”
Bevemmo un sorso di caffè ciascuno e mentre poggiavi il bicchiere di caffè sul tavolo, mostrando leggermente i denti in tono beffardo, sussurrasti con un filo di voce un “seeee, seeee” quasi come se ti stessi riferendo solo a te stessa. A me veniva da sorridere per la tua arguzia ma non volevo scoprirmi, perciò quel sorriso me lo tenni dentro.
“A proposito di tempo, stavo pensando… secondo me dovremo prenderci più cura di noi due quando torneremo.”
I tuoi “quando torneremo” li conoscevo bene. Una fitta rete di appunti e note esclusivamente mentali bloccate nel traffico ingarbugliato delle sinapsi. Non è tanto che te li dimentichi, è che ci mettono una vita per arrivare a destinazione, se una vita basta. In ogni caso, rimasi in religioso ascolto.
“Intendo proprio a livello di tempo, non gli diamo mai la giusta importanza nè al nostro, nè a volte a quello degli altri. Ad esempio io credo che dovremmo festeggiare di più compleanni e anniversari, non lo facciamo quasi mai. Sono il sigillo del tempo, un modo per ricordarti che l’hai vissuto veramente. No?”
Guardavo in maniera alternativa te e il quadro, eravate sulla stessa direttrice e mi bastava cambiare fuoco per spostare l’attenzione sull’uno e poi sull’altro. Quel quadro era strano, molto strano: ora riuscivo a leggere la scritta anche da seduto se ci facevo caso. Ma bastava che ponevo la mia attenzione sugli individui dipinti che la perdevo di vista immediatamente. Continuai questo gioco per un po’, alternando te, gli uomini dipinti e la scritta e così di seguito, finché uno strano miscuglio di voltastomaco e mal di mare mi fecero smettere. Non capivo se era la fisica che non mi permetteva di leggere appieno quella situazione o solo una mia mancanza di attenzione. Sembrava che tu ci fossi riuscita fin dall’inizio a leggere quella scritta.
Rimasi in silenzio qualche secondo. Poi, come disarmato da un senso di vacillante convinzione, in tono sommesso, dissi:
“Sì, dovremmo”