Bukhara in Uzbekistan
[Day 174 & 175] Bukhara, l’oasi piú bella sulla via della seta
Bukhara è la perfetta nemesi di Samarcanda: tanto è chiassosa, scintillante, spettacolare Samarcanda, tanto è misteriosa, segreta e fascinosa Bukhara.
Il centro storico, un dedalo di stradine ocra puntellato da madrasse e moschee favolose, è una meraviglia assoluta e nonostante l’80% del patrimonio artistico sia andato perduto, distrutto dall’impero russo, dall’impero sovietico, dall’incuria e dai fenomeni atmosferici, ciò che rimane è comunque incredibile. Durante i fasti di Bukhara, quando era al centro del commercio mondiale, quando personaggi come Avicenna, Ibn Battuta, Ulugh Beg, Bahauddin Naqshband solcavano le sue strade si contavano 160 edifici di importanza unica tra madrasse, moschee, mausolei e bazaar monumentali. Ora ne rimangono circa una trentina.
Eppure la cosa forse più attraente di questa città è la sua quiete magica, un silenzio sfiorato solo dalle folate di vento.
Anche a Bukhara però non mancano i problemi: i souvenir shop e gli hotel hanno completamente divorato la città vecchia e, al contrario di Samarcanda, appena si esce dal centro la città muore, si eclissa in un gigantesco nulla. Che ne è stato della vitalità brulicante del passato? Dopo 70 anni di dominio sovietico questa città umiliata e saccheggiata, ha riempito il suo vuoto con il turismo, sacrificandosi completamente per esso.
Eppure non riesco a dimenticarmi quell’ultima camminata nel buio profondo, tra i vicoli stretti del quartiere ebraico e, ad un certo punto, la comparsa della torre Kalon, faro nella notte, una visione da brividi veri.
Le vite degli altri: Alex e la “sua” Bukhara
Alex è la prima persona che realmente capisce le nostre preoccupazioni riguardanti il turismo e l’evoluzione delle società di questi tempi.
Sarà che ha un punto di vista interno ed esterno, essendo nato nel cuore di Bukhara ma vivendo da 7 anni a Los Angeles. Ha lavorato per grandi corporation finanziarie ed ha vissuto il crack economico del 2008 in prima persona: “una lezione di vita incredibile”. Ora, stanco di un impiego nine-to-five, ha deciso di lavorare saltuariamente negli Stati Uniti e tornare spesso a Bukhara, magari aprire un guesthouse e godersi di più la vita.
È un tagiko, nato in Uzbekistan che vive a Los Angeles, ma non sente come patria nessuna delle tre. Non è soddisfatto di come il turismo viene affrontato a Bukhara, si può fare di meglio dice. Il governo spinge su parcheggi, asfalto e statue plasticose, Alex vorrebbe restituire più pietra e più passato alla sua città di quanto non ne abbia già. Ci racconta di come le tradizioni e la cultura di Bukhara (città dalla storia maestosa, capitale di khanati ed emirati) siano state imposte a tutta la popolazione come substrato comune per creare una nazione Uzbekistan che di fatto non esisteva prima del 1991: all’interno del paese ci sono lingue e culture completamente diverse tra di loro e quando parlo di lingue non intendo dialetti ma radici millenarie, turchiche o persiane. A complicare maggiormente la faccenda c’è il fatto che Bukhara, come d’altronde Samarcanda, un tempo era una città in territorio tajiko, regalata dall’unione sovietica all’Uzbekistan nel 1924.
Mi viene in mente l’italia e di quanto certi momenti di crescita e di consapevolezza dei paesi siano simili. L’unica differenza è che stati come l’Uzbekistan, congelati da quasi 70 anni di dominio sovietico, da altri 100 di impero russo, comparse nel “grande gioco” tra Russia e Gran Bretagna, hanno dovuto accelerare e condensare la loro storia in pochi decenni per rimanere al passo con i tempi. Negli ultimi venti anni hanno avuto il loro risorgimento, il loro fascismo, la loro guerra civile, il loro boom economico e la loro rivoluzione digitale. E questa compressione temporale è stata fonte di rivolte, massacri e corruzione.
Quando riflettiamo su questi paesi, dobbiamo sempre tenere a mente la fragilità di popoli che sono stati oppressi per secoli e ora stanno cercando di costruire il loro futuro.