La cultura di Medellin
Oh mamma… da dove si può iniziare a parlare di Medellin? Forse dai 400 metri che separano la Plaza Botero, dove il popolo passeggia tra sculture di Botero e fiori sgargianti, dalla Plazuela Francisco Antonio Zea, dove disperati appiccano fuochi nel parco e vivono dentro ripari di cartone. 400 metri che separano quello che Medellin era in passato da quello che potrebbe essere in futuro: una corsa a ostacoli in un presente di intense contraddizioni.
Quando si arriva al fondo della Plaza Botero la strada prende un giro strano e rientra come su se stessa fino a che non si giunge al Parque de Berrio, dove tutti i giorni i vecchi paisas (gli abitanti di Medellin) si riuniscono per suonare folk colombiano e per trangugiare tinto (caffè filtrato colombiano). Ma è una illusione! Se si soddisfacesse il capriccio di andare dritti, dove il traffico copre la visuale si vedrebbe una Medellin trasformata in un covo di disperazione. Mai ci era capitato di vedere come in Colombia, la sofferenza bussare (e molte volte sfondare) alle porte del cuore delle città.

Oggi, finita l’epoca stragista (Medellin nel 1991 era la città più pericolosa al mondo con più di 7000 omicidi annui), con il centro nevralgico del narcotraffico spostato in Messico, con le battaglie ideologiche ridimensionate, Medellin combatte una lotta senza quartiere con la criminalità dei poveri e degli scarti della società e lo fa con delle armi inusuali: la natura, la tecnologia, l’arte e la cultura. Per ogni bomba scoppiata, Medellin ha risposto con una biblioteca, un’opera d’arte, un parco.


Medellin: oltre Narcos
Sgombriamo il campo dagli equivoci: Medellin non è una bella città ed è questa la sua bellezza.
Losca, truce, contraddittoria, eppure il simbolo di una incessante evoluzione che nel giro di vent’anni l’ha tirata fuori da una notte senza fine. Medellin non ha la portata culturale deflagrante di Bogotà ma ha un clima paradisiaco e un popolo generosissimo.
È una città fatta di città: ogni quartiere ha la sua piazza, la sua chiesa, il suo cibo, i suoi anziani che suonano folk o giocano a Backgammon e ogni quartiere seppur simile agli altri ha una caratteristica propria che lo illumina.
Poi c’è la valanga umana, prettamente campesinos, che a partire dalla selvaggia urbanizzazione sudamericana di metà del Novecento, ha inondato tutta la valle a nord della città fino a inerpicarsi sulle cime dei cerri, tanto che Medellin, un po’ come La Paz, dall’alto sembra un mare tempestoso di minuti cubicoli marroni.

Il “centro storico” è un pasticcio metropolitano degno di un motor city americana con delle incursioni architettoniche sovietiche brutaliste: fa una fottuta paura ma in un certo senso ha un fascino vizioso che non ti molla. A sud la classe media e alta si è impossessata di tutti i terreni costruendo la propria Sim City, un fiume di casine basse sorvegliato da grattacieli bianchi e trasparenti: se Envigado è un simpatico pueblo inurbato dove si passeggia volentieri, El poblado è il vomitevole quartiere soprannominato dai locali “gringolandia” dove gli stranieri di tutto il mondo fanno a gara per non sentirsi in Colombia.
E poi c’è Laureles, il nostro quartiere preferito, una Brooklyn colombiana dove domina il tipico mattoncino rosso colombiano, un’oasi di pace dove abbondano minute caffetterie, panaderie aperte sulla strada e ristoranti locali.


La Medellin di Robinson e l’ “effetto Pablo Escobar”
Robinson è una di quelle persone illuminate di cui riesci a percepire la statura: grande ascoltatore e con la rara capacità di comunicare solamente con il potere degli occhi e lenti movimenti del corpo.
Gestisce da 18 anni una mensa per poveri nel centro di Medellin dove accoglie tutti i giorni per pranzo fino a 400 persone divise su tre turni: tossicodipendenti, gente della strada, criminali, prostitute, matti e ultimamente moltissime famiglie venezuelane. Lo aiutano una serie di volontari che lo supportano nella preparazione dei cibi e nella messa in tavola mentre lui mantiene l’ordine davanti alla porta del refettorio e fa entrare uno per uno i bisognosi.
Offrire il cibo è un buon modo per attirarle, poi grazie ad una psicologa e all’impegno di Robinson, l’obiettivo diventa coinvolgere queste persone per dargli la possibilità di reintegrarsi nella società.
Il lavoro quotidiano da fare è enorme ma l’associazione Emmanuel (questo è il nome) non sembra risentire della fatica e la giornata scorre veloce tra scherzi e sorrisi. Noi abbiamo dato il nostro contributo per una giornata, sminuzzando la verdura e successivamente portando i vassoi carichi di zuppe in sala.

Abbiamo parlato molto di Medellin con Robinson. Secondo lui la città non ha cambiato sufficientemente pelle negli ultimi anni e i problemi, seppur differenti, rimangono molti. Se in passato la Colombia era solamente un paese esportatore di droga, oggi è diventato anche consumatore grazie al calo dei prezzi delle sostanze e all’invenzione di nuove, devastanti ed ipereconomiche droghe come il Basuco. Minigang si spartiscono il mercato locale assieme a quello della prostituzione e la novità e che anche molte adolescenti donne hanno cominciato con l’uso di sostanze.
Secondo Robinson esiste un effetto “Pablo Escobar”: se per la stragrande maggioranza dei Paisas è il peggior incubo nell’intera storia della nazione colombiana, per qualcuno è diventato un idolo da imitare: un uomo che si è fatto da solo.
Il peggior dei crimini compiuto da Escobar, non è stata la strage dell’Avianca, nè il tentato golpe al potere, ne la striscia dei morti che si è lasciato dietro, ma l’avere instillato in una parte della popolazione giovanile l’idea che si potessero guadagnare soldi facili e una vita di benessere con la criminalità, dichiarando guerra aperta perfino allo stato.
Grazie Robinson per averci coinvolto e permesso di comprendere un altro aspetto di questa città così complessa!

