Dal nostro diario di viaggio in Iran, un racconto incentrato su Yazd e i suoi abitanti. E anche su un kebab di cammello.
Tutt’ intorno Yazd esplodeva di vita, il fango e la sabbia delle case si scioglievano al sole, le honda CG125 rombavano dentro i tunnel del bazaar facendo un chiasso infernale, le peugeot 206 impolverate sputavano benzina tossica.
Oltre il vetro lercio della porta di ingresso si intravedeva il tempio del fuoco. Era bello limpido e lustrato come una casa coloniale in mezzo alla giungla, se non l’avessi visto con i miei occhi non ci avrei mai creduto: in quel frigido tempietto era custodito il fuoco sacro che ardeva silenziosamente da millenni? Vedevo passare anzianotte dalla camminata sgraziata che si sistemavano alla meglio lo chador nero fatto oscillare dal vento. Noi due eravamo dentro, al riparo dal caos della società moderna. Il signor macellaio ci stava preparando un kebab di cammello. Mi voltai a guardarlo attraverso il vetro del bancone, dove erano esposte a penzoloni lunghe strisce di carne di pollo e cammello. In particolare il cammello aveva un colorito giallo lebbra per nulla invitante ed è per questo motivo che avevamo deciso di prenderne due porzioni. Il signor macellaio era molto indaffarato. Come tutti gli uomini iraniani ci aveva accolto con uno sguardo burbero scioltosi in un istante in un sorriso grazioso. Noi eravamo seduti a gambe incrociate su un ripiano alto circa un metro ricoperto di tappeti che occupava metà della sala. La stanza era vuota, attorno solo il ripetersi incessante delle piastrelle bianche, nient’altro.
Gli interni persiani sono così: spogli ma con grazia, con questo mare di tappeti colorati che ricopre il pavimento. Per attraversare la stanza devi nuotare, trascinando le gambe e il corpo come sacchi di patate, camminare potrebbe rompere l’incantesimo. Per chi non è abituato è come muoversi su Giove, dopo un po’ fluttuare in questo cosmo bianco diventa un interessante esercizio di meditazione, hai la sensazione di non avere più bisogno di nulla, il tempo si allunga e, senza oggetti, le stanze non hanno più fonte di rumore.
Ti chiedi come mai il tuo salotto di casa è così imbandito di orpelli che stanno lì a ricordarti chi sei e cosa devi fare, tutti i giorni. Ti chiedi se ne hai veramente bisogno: ne abbiamo veramente bisogno?
In alto, appoggiata ad una mensola, la televisione piccina a tubo catodico, era accesa. Era lontana nel tempo e nello spazio. Riproduceva, su sfondi monocolore sbiaditi, fiori sgargianti ritagliati come se fosse découpage e fotografie di soldati morti senza soluzione di continuità ognuno con i suoi 30 secondi di celebrità postuma. Quindi folle oceaniche e manifesti inneggianti, la torre Azadi e le strade invase come se la rivoluzione fosse ancora in corso giorno dopo giorno. Era un’ipnosi, lenta e costante, che tentava di scavare nei segreti più reconditi del subconscio collettivo. Tutto ciò stava accadendo ora o erano immagini del passato? Siamo abituati a vedere i media come una finestra istantanea sul mondo e quei video, così diretti ed enfatici, mi trasmettevano tensione.
Sbam! La mia attenzione fu bruscamente attirata da un gruppo di ragazzini che aprirono la porta di slancio. La prima linea di sfondamento era composta da due ragazzine che, sostenute dall’entusiasmo, raggiunsero il ripiano dove eravamo seduti praticamente senza toccare terra. Poi si sedettero con violenza, atterrando bruscamente sul tappeto. Erano molto simili, sembravano gemelle: cappottino beige di qualità, sciarpa pesante e il velo nero che non riusciva a nascondere ciuffi di cappelli stirati, nero corvino. Immediatamente tirarono fuori ognuna il proprio cellulare ultima generazione e vidi le loro unghie brillanti ruotare vorticosamente attorno all’aura fluorescente del display. Dietro di loro, con fare più dimesso, un ragazzo con capelli a spazzola e lo sguardo beota di un adolescente in calore.
Dal riflesso dei tuoi occhi, che si erano improvvisamente illuminati, capì che il nostro kebab era pronto. Mi voltai verso il signor macellaio e un suo cenno me lo confermò. Scesi dal ripiano e andai a prendere il vassoio con il cibo, quindi lo riportai dove eravamo seduti e lo sistemai nel cerchio formatosi in mezzo alle nostre gambe incrociate, come se ci stessimo scaldando attorno ad un falò. Osservai il cibo, con quel piacere lussurioso che si prova subito prima di ingollarlo: i due kebab sembravano castori tisici in rigor mortis e questo non migliorava di certo il nostro apprezzamento verso di loro. Ora, come accade sempre quando io e te, da soli, assaggiamo qualcosa di nuovo, io, che mi considero un neofita e che per la cucina penso di avere un buon fiuto ma allevato in maniera disastrosa, formulo silenziosamente un giudizio analitico. Questo mio giudizio verrà rivelato solo dopo aver ascoltato il tuo, un po’ per evitare di dire castronerie, un po’ per non influenzare il tuo gusto che ha bisogno di decantare prima di venire fuori tout-court. Il tuo giudizio invece, viene fuori in maniera spontanea e melodica, come se le corde del tuo stomaco vibrassero di colpo. La prima vibrazione sa già di sentenza: se qualcosa non ti piace rimani in silenzio, se invece ti piace emetti un gemito di piacere.
– “E’ buono!” fu la seconda vibrazione.
Sì, era buono. Gli iraniani sanno grigliare veramente bene. La loro firma è una nervatura nera, delicata sopra la pelle, il cuore della carne è tiepidamente gustoso, semplice, per nulla secco.
Il loro kebab gli assomiglia un po’ come accade per i turchi. L’ iskender kebab che avevo provato a Bursa tempo prima era opulento, arrogante, goloso. Quando lo mangiavo avevo già addosso il sudore delle mandrie di vitelli che uscivano dalle case a testa bassa richiamati dal muezzin. Avevo già i brividi generati da quel canto rotto e tagliente che creava un vortice terrorizzante e squarciava l’aria come se il mondo dovesse finire in un istante. In Iran invece il kebab ti ricorda il profumo inebriante del bergamotto e del melograno e il timbro del muezzin, sordo e inceppato, sembra quello del front-man di una rap gang sfigata del Bronx.
Mentre mangiavo, tornai ad osservare divertito i tre ragazzini che avevano appena ordinato ed erano ora intenti in uno strano affare che sembrava coinvolgerli molto. In particolare una delle due ragazze era uscita dal locale e poi era rientrata di colpo qualche istante dopo spalancando la porta e segnalando ai compagni qualcosa ad ampi gesti. Immediatamente l’altra ragazza aveva reagito salendo le scale per raggiungere il soppalco con una foga smisurata e tornando al piano di sotto subito dopo con altrettanto entusiasmo. Il signor macellaio, nonostante tutto questo baccano, non faceva una piega e continuava il suo lavoro certosino. Io e te eravamo giusto a metà pasto, goduto in religioso silenzio. Ad una seconda, più attenta, osservazione avevo notato tutta la meravigliosa discrezione, dedizione ed eleganza delle donne iraniane, seppur adolescenti. Il profilo sinuoso e misterioso da mille e una notte, l’occhio più allungato, a mezzaluna che ricorda notti limpide e stellate, il contegno, serenamente dimesso ma brillante. Evidentemente stavano attendendo qualcuno e non riuscivano a mascherare completamente l’eccitazione.
Guardai di nuovo fuori: il passaggio delle auto era incessante. Una delle maledizioni dell’iran sono le auto oggi, il petrolio a basso costo e mal raffinato è l’unica moneta che tutti si possono permettere. Così Teheran è diventata una polveriera, le tue narici che prendono fuoco mentre osservi le strade paraboliche che salgono sempre di più e che si poggiano sulle case di cartapesta dei poveri diavoli. Anche Yazd non vuole essere da meno, non mi stupirei se tra qualche decennio i badgir venissero trasformati in ciminiere.
Ma qui c’è il deserto. Il deserto è come il mare, lo senti respirare, ti siedi, lo ascolti e pensi, ti commuove. Superati gli ultimi caseggiati di Yazd rimane solo la polvere trafitta dai fiochi raggi di sole, il profilo lontano delle cime rocciose e un silenzio, dolce e inquieto. Laggiù il petrolio non può arrivare, non ha di che sostentarsi.
Al di là della porta si stagliò improvvisamente la figura di un uomo. Entrò con la disinvoltura di chi conosce bene il posto e si avviò verso il gruppo di ragazzini. Anche lui doveva avere più o meno la loro stessa età, le ragazze lo accolsero con sorrisi sornioni e con una singolare calma, come se dopo l’entusiasmo precedente, avessero tirato il fiato e si fossero sgonfiate. Tutti assieme ciacolarono un po’, il locale ritornò alla sua bonaria placidità, a noi restava l’ultimo boccone e notavo la tua soddisfazione dallo sguardo concentrato e la palpebra semi-abbassata: ti stavi concedendo anima e corpo al tuo cibo.
Un sussulto mi distolse da questa visione di beatitudine. Una delle due ragazzine zompò dal tappeto facendo vibrare tutto il ripiano. Salì nuovamente le scale del soppalco, rimase qualche secondo al piano di sopra e immediatamente dopo ricomparve, scendendo le scale a due a due. Cominciai a intuire qualcosa: nella mano destra teneva un pacchetto che non avevo notato le volte precedenti. L’altra ragazza, con la schiena dritta, applaudiva inebriata. Il regalo venne porto al ragazzo appena entrato, che lo ricevette con un timido sorriso e lo scartò con una lentezza da bradipo.
Mi accorgevo ora che questa sensazione l’avevo provata spesso qui in Iran: donne forti e astute, con un piglio deciso, combattivo e uomini sottomessi, anche un po’ intontiti ma comunque estremamente docili e gentili.
Chi deve lottare per i propri diritti, giorno dopo giorno, è come se dovesse combattere una guerra quotidiana, costante e lacerante in cui ogni dettaglio assume la forma di una bomba pronta ad esplodere. Le donne iraniane sono delle seducenti, affascinanti bombe pronte ad esplodere.
Distolsi l’attenzione dai ragazzi per gustarmi fino in fondo l’ultimo boccone di kebab. Proprio mentre lo stavo portando alla bocca sentì il tintinnio del campanello della porta suonare: stava entrando qualcun altro nel locale. Nonostante la luce intensa che lo colpiva da dietro e che ne faceva individuare solo la silhouette, notai la camminata incerta e una valigetta nella mano sinistra. La sua risata lo precedette: strozzata, corta ed interrogativa, sembrava una spirale che saliva, saliva e poi ad un certo punto finiva, nel vuoto. Con noncuranza ripose la valigetta sul ripiano di tappeti di fronte a noi e si appoggiò sul bordo reclinando leggermente la schiena. Era rachitico e nodoso, sembrava un alberello d’inverno esposto al vento. In un attimo riesplose di nuovo in quella risata bizzarra, gli illuminò il viso e potei osservare lo smalto nero dei pochi denti marci rimasti e le profonde rughe che lo intagliavano lungo tutto il viso. Nessuno si scompose a parte qualche fugace occhiata sardonica, come se l’uomo fosse già una conoscenza da quelle parti. Il signor macellaio continuava a sistemare, spezzare carne, badare al locale. I ragazzi erano ancora impegnati nell’ affare “regalo”, seppur l’entusiasmo stesse piano piano scemando. Tu l’avevi accolto con fare superficiale, eri ancora troppo presa dalle riflessioni sul cibo.
Allora il tipo strambo passò alla fase due: gorgogliò sommessamente emettendo una risatina ancor più strozzata come fosse un cenno di scherno. Poi aprì la sua valigetta: ne uscì un vecchio, lurido ma comunque fiammante giradischi portatile. Stette in silenzio per qualche secondo, ci guardo tutti quanti uno dopo l’altro con la bocca aperta da ebete e i denti storti in evidenza: era sicuro di stupirci. Si girò di scatto e rovistò nella tasca superiore della valigetta per due buoni minuti. Cacciò fuori vecchi fogli, fazzoletti usati e una quantità indefinita di 45 giri che ripose alla rinfusa sul ripiano. Quando trovò quello che più lo aggradava, sfiatò di nuovo gorgogliando come per esultare, poi si affrettò a inserirlo nel giradischi e piazzare la puntina. La musica che ne uscì fu qualcosa a metà tra il celestiale e il mefistofelico, una nenia ritmata surreale che fece voltare tutti quanti, compreso l’imperturbabile signor macellaio. Aveva un ritmo indiavolato e primitivo come un blues delle origini ma la melodia zampillava ovunque come una fontana, sembrava rock ’n roll di un mondo parallelo. Vedevo il giradischi vibrare e la puntina zompettare come se stessero sfogando una forza occulta, un po’ di polvere sedimentata sul bordo della valigetta cominciò a sprigionarsi e ad invadere la stanza.
Mai mi era capitato di ascoltare qualcosa di così liberatorio o forse solo una volta, quando sull’altura del villaggio di Shirakawa-Go fummo catturati dallo zoppicare dello Shamisen e da voci ululanti e precarie tanto che mi ricordo ancora di aver pensato che l’anima del blues l’avessero inventata quei giapponesi, isolati e stremati durante i lunghi inverni delle montagne di Gifu.
I primi istanti furono di puro imbarazzo. Aveva ragione lui: ci aveva ipnotizzati tutti come serpenti, aveva stravolto completamente il normale susseguirsi degli eventi nel locale del signor macellaio. Lo osservavamo arresi come se dovessimo attendere istruzioni sulle nostre prossime mosse, quella scenetta aliena ci aveva congelato le gambe e le braccia mentre lui se la rideva a suo modo, raschiando e gloglottando. Poi d’improvviso, cominciò a muoversi. Si muoveva in maniera repentina e schizoide, come se avesse le convulsioni e nel frattempo ridacchiava. Credo pensasse di ballare ma era talmente fuori sincro che vederlo ballare e allo stesso tempo ascoltare la musica dava quasi il mal di mare. Era, a suo modo, spettacolare.
I suoi movimenti ci sciolsero dall’incantesimo. Il signor macellaio tornò ad occuparsi del locale, le ragazze tornarono a frizionare lo schermo del cellulare. I ragazzi invece si aprirono in un largo sorriso che confluì brevemente in una grassa risata non appena condivisero commenti su quella scena ridicola. Tu eri sazia e stanca, il viaggio cominciava a farsi sentire. Io ero confuso, imbarazzato, divertito, entusiasmato. Il tipo strambo contendeva lo sguardo alternatamente a chi ancora gli dava corda: me, il ragazzo, l’altro ragazzo, il ragazzo, l’altro ragazzo, me. Quando mi guardava riuscivo a sfidarlo per pochi secondi poi abbassavo gli occhi: lui aveva molto meno pudore di me e probabilmente più spirito da vendere. Uno dei due ragazzi estrasse il cellulare un po’ furtivamente dalla tasca e lo puntò dritto dritto al cuore del tipo strambo continuando a ridergli in faccia e a profanarlo. Lui non se ne curava, era in un mondo tutto suo, accettava inconsapevolmente la sfida della tecnologia e della riproduzione seriale. Anche io timidamente, sopraffatto da un eccesso di spavalderia, ripresi la scena con la fotocamera dello smartphone, un po’ di sbieco, con il fare maldestro del ladro apprendista. Solo pochi secondi, il tempo di sentirmi moralmente colpevole e abbassare la cresta.
Quando conclusi la registrazione e misi in tasca il cellulare, mi guardai attorno.
Era come se quella musica convogliasse tutto in un vortice: il fuoco sacro che arde da millenni, i gas di scarico delle auto di Yazd e di Teheran, tu, i cortei e i morti in guerra della televisione pubblica, il deserto e il suo respiro, la pazienza del signor macellaio, il kebab di cammello, il fascino discreto delle iraniane. Chi c’era poi dentro quel vortice?
Dentro c’era M.A., stirpe nomade e ora sedentario, per forza di cose. Il suo sogno commovente di aprire un ostello a Z., tra i mattoni fatiscenti del piccolo centro storico. La sua voglia irrefrenabile di conoscere lingue, persone e terre lontane. Il suo odio verso gli Arabi, gli usurpatori, per lui che si professava zoroastriano più per rivendicare le sue origini che per profonda convinzione. C’era suo fratello minore A.A. appassionato di auto da corsa, che quando gli parlavi di Ferrari o di Lamborghini, annuiva con un largo sorriso e aveva gli occhi che si illuminavano a giorno. Il suo imbarazzo per non riuscire a comunicare, per non essere all’altezza della situazione e un istante dopo quella dolenza spensierata di chi sa che quelle auto le avrebbe viste solo su fogli di giornale anche se un giorno, forse, chissà…
Dentro C’era S.A., vecchio ingegnere dallo sguardo vivace, con i figli e nipoti globetrotter in capo al mondo e lui che di chilometri ne faceva altrettanti, a passi corti e veloci, nella sua Esfahan. Il suo abgoosht preferito gustato nel locale più malandato del Qeysarriyeh Bazaar, mentre ci confessava con la dolce fierezza di ottant’anni suonati che lui “credeva solo nella scienza” e che “amava l’alcool e ne aveva bevuto tanto durante la sua vita fino al ‘79. Ora solo qualche bicchierino, quando va a trovare il suo figliuolo, in Giappone”. Il rifugio del suo spirito, sopito ma ancora combattivo: una panchina a fianco del mausoleo del professor Arthur Pope (e io che pensavo con quanta ironica grazia il paradosso avesse potuto immaginare che lungo le sacre sponde del fiume Zayandeh nell’impero di Khomeini potesse riposare in eterno un americano).
Dentro c’era A.K., il ragazzino venditore di souvenir e di karma. La sua mente che andava sempre oltre e dovevi correre per stargli dietro. Il suo culto sincero per l’Islam, quello in cui si può tirare tardi la sera per conoscere amici venuti da lontano, in cui ogni novità è una bella scoperta, l’islam degli oratori e della coesione sociale. C’erano i suoi amici, che ci accolsero con la riverenza che si concede agli ospiti illustri. La loro curiosità indomabile, la voglia di sapere com’era di là in occidente e con lo stesso vigore la voglia di spiegare com’è invece di qua in Iran. C’era G.M. che affermava che un giorno avrebbe preso armi e bagagli e se ne sarebbe andato lontano, senza dire niente a nessuno. P.K. che stava studiando da ingegnere, non per far soldi, ma per migliorare il suo paese. E poi c’era O.M., il vecchio matto della scuola: sua moglie non voleva più fare all’amore e allora lui, per ripicca, era fuggito via. Sì, proprio come nei film dove il protagonista esce per comprare le sigarette e non torna più. Lui invece era tornato, dopo circa un mese, quando semplicemente gli sembrava la cosa migliore da fare.
Chi c’era poi ancora lì dentro? M.M., il tassista silenzioso, N.D. la giovane guida religiosa di Aramgah-e Shah-e Cheragh con la passione per i social, S.F., la discreta artigiana ricamatrice di piatti, P. che conosceva un pizzico di italiano perché aveva un grande amico a Torino, F.S., P.S.. e D.R. che ci hanno portato sulla cima di una collina solo per mostrarci che anche Teheran in fondo aveva un suo lato romantico.
Dentro c’ero anche io che, da quel giorno, e non ero più lo stesso.
2 commenti
Complimentoni. Articolo bellissimo .
Grazie Davide!!!